– di Edoardo Biocco –
Luca Marinelli disse che quando gli proposero di interpretare De André in “Principe Libero” non era spaventato, era terrorizzato. E non gli si può dar torto: sbaglia quello e ti devi chiudere in casa per sei mesi, azzeccalo e verrai consacrato e incensato per aver fatto di nuovo parlare un poeta sullo schermo di mamma Rai.
Toccare Faber è sempre una scommessa, figurarsi renderlo “nostrum” come hanno fatto alla Sony Legacy.
Come ogni fedele seguace di De André ero seduto nella sala della conferenza stampa con un senso di diffidenza, partendo già sospettoso nei confronti di chi sarebbe intervenuto, un po’ come se mi aspettassi delle spiegazioni per l’album Faber Nostrum, non tanto per l’effettiva qualità del prodotto discografico, quanto perché semplicemente l’impressione era quella che fosse stato scomodato un nome con una eco fin troppo greve.
Vignola ha tentato una via di mezzo fra il mettere le mani avanti e il voler dare subito senso all’operazione Faber Nostrum, innalzando le tracce da cover a vere e proprie appropriazioni che hanno potuto mettere in atto gli artisti chiamati a questa raccolta, e forse è una giusta chiave di lettura, specie se si pensa a come Willie Peyote abbia rimaneggiato “Il Bombarolo”. Ormai il format dell’album come siamo abituati a concepirlo sta perdendo rapidamente di senso e allora hanno ben pensato di creare un “hub”, un punto di ritrovo delle nuove leve (oddio, alcune nuove ma non nuovissime…) in cui esibirsi, su un terreno comune come può essere l’ormai nazional popolare amore verso De André. Messa in questo modo forse non suona neanche troppo male questa mossa, anche perché se ben veicolata potrebbe ottenere il doppio effetto di desacralizzare la figura del cantautore ligure e al contempo mettere in mostra i muscoli dell’emergente musica leggera italiana, ma il “se” è d’obbligo.
“Spero un giorno che i testi di Fabrizio possano non essere più attuali, e non rappresentare la società” ha detto Dori Ghezzi proprio durante la conferenza stampa, e un’affermazione simile in quel contesto, può far pensare ad un nuovo utilizzo di De André, un utilizzo dei testi del marito per far sì che nuovi artisti possano farsi ascoltare da una platea nutrita che gli possa dare l’attenzione e la dignità che merita.
Ed è proprio questo il corto circuito che non sono riuscito a risolvere: il pubblico (generalista, maggioritario, trasversale, l’aggettivo sceglietelo voi) ha davvero così tanta paura ad approcciarsi ad una nuova ondata musicale, da non riuscirci se non attraverso il filtro Faber? Oppure sono queste nuove leve a non sapersi reggere in piedi di fronte al mondo pop se non con il bastone di Fabrizio?
Non vorrei che questo album diventasse l’implicita conferma che se non passa su orme conosciute, un nuovo artista non sarà preso mai del tutto in considerazione dal grande pubblico. Eppure questa sensazione serpeggia, come se ci fosse molta paura nel mostrare il mondo indie per quello che è, con tutte le sue controversie, limiti, punti deboli e differenze espressive rispetto al cantautorato italiano storico.
Col tono disfattista ormai tanto caro a noi millennials, verrebbe da dire che questa operazione non è altro che specchio dei tempi: un passato ingombrante che è bene superare, ma senza avere la forza della rottura violenta e necessaria. Un passaggio dalla vecchia guardia ai giovani, ma senza che loro abbiano uno spazio di manovra eccessiva; gettare il cuore oltre l’ostacolo puntando sull’indie, ma facendo sì che l’insegna sotto cui tutto si muove incuta quasi timore a chi fa parte del progetto. Ne è la prova il fatto che, a detta della stessa Sony Legacy e degli artisti presenti, molti cantanti contattati per prendere parte a Faber Nostrum si siano rifiutati per paura del confronto, del giudizio o per l’estremo rispetto nei confronti di De André. Vuoi dargli torto quando si parla di una figura che più che suddividere il pubblico tra fan e detrattori li spinge verso il tifo pro o contro di lui? Vista la facilità con cui si entra in questo meccanismo, non me la sento.
Faber Nostrum, in definitiva è un album, un’idea e un progetto che ho paura lasci le cose esattamente come le ha trovate, non è un “greatest hits dell’indie”, non è un best of di De André, ma solo una raccolta un po’ paracula che non penso amplierà il pubblico di Faber, né farà sbarcare l’indie/itpop su lidi inesplorati. Ma io sono un pessimista e sotto sotto spero di sbagliarmi.