– di Riccardo De Stefano –
Viviamo in tempi difficili, complessi, dove i layer di significato tendono a far sparire il “vero” senso delle cose, lasciandoci il dubbio su quello che stiamo vedendo, ascoltando, leggendo. Siamo in un’epoca storica che si appiglia al passato per leggere il presente, e immagina il futuro sempre più in chiave distopica. Gira che ti rigira, alla fine, troviamo solo un frullato di immagini, simboli, idee, tutto sovrapposto, anzi sovraesposto, e non si capisce più nulla.
In tutto questo emerge Achille Lauro e il suo 1969. Cinquant’anni sono un bel periodo per leggere un’epoca, toglierne le cose brutte e lasciare solo quelle belle. Quindi, hey, di cinquant’anni fa ricordiamo Woodstock e il sogno hippie, ma non che fu un incubo organizzativo, né tantomeno l’Altamont di qualche mese dopo, che costò la vita a 3 persone. Celebriamo lo sbarco sulla Luna, ma della Guerra del Vietnam non se ne parla.
Insomma, ci adagiamo sul cliché, perché è quello che ci fa vivere meglio. In fondo tutto è cliché, ormai. Anche il Rock, no? Basta avere i chitarroni, l’attitudine, magari spaccare la chitarra come gli Who. Il rock torna a essere rivoluzionario proprio perché esauritosi ormai decenni fa: dopo esser stato fagocitato, digerito, dopo aver fertilizzato il terreno è sparito per tornare – forse – rinato. Pensiamo ai Maneskin, guardiamo i recenti biopic su Queen e Motley Crue.
Tutto cliché, tutto standard che del rock ha solo l’aspetto più triviale e leggero. Sì, lo stesso approccio che ha Achille Lauro nel suo 1969.
Quanto fa strano immaginare quello che per tanto tempo è stato la wild card del rap, poi della trap, oggi portavoce del rock in Italia? Eppure è così. I fasti sanremesi, conditi dalle ben note polemiche, lo hanno proiettato come uno dei nomi importanti del presente nostrano, e la sua Rolls Royce è ovunque, volenti o nolenti. Un brano rock and roll, finto punk, molto pop.
Un brano giusto, che segna la strada di tutto il disco: l’intimità di C’est la vie, secondo singolo, è spazzata via dal groove à la My own personal Jesus di Cadillac. C’è Coez che tinge di graffiti pop il disco in Je t’aime, il mono ritornello ripetitivo ormai canonico in Zucchero (che si aggiunge ai vari BVLGARI del passato), la title track, 1969, che si erge a piccolo inno in minore del disco, la drammatica Roma, con Simon P, che invece richiama il passato storico di Lauro e della prima parte della sua carriera, poi Sexy Ugly che continua la lista imperterrita di nomi e simboli, Delinquente, che torna in maggiore e funge quasi da ripresa musicale di Rolls Royce e infine Scusa, adagio meditabondo e riflessivo che malinconicamente ci dà il commiato.
1969 è comunque un lavoro originale, nel suo essere anti-originale. Rifiuta tutta l’elettronica facilona, si allontana dal passato anche prossimo di Pour l’amour, e soprattutto cerca di evitare lo scandalo. 1969 è infatti, forse sorprendentemente, forse no, un disco normale. Altro che inneggiare alla droga, forse per la prima volta l’argomento scottante è messo a riposo, citato e ovviamente accennato, ma come riflesso di un tema più grande e centrale: quello del successo.
Il successo e la sua fragilità ci fanno vedere un Achille Lauro impegnato a reiterare quasi in loop la stessa fila di nomi simbolici, a mo’ di correlativo oggettivo: Rolls Royce, Cadillac, Ferrari, sono simboli ereditati dall’estetica della trap – quel “io posso perché so’ ricco e te no” – ma che qui assumono una sfumatura diversa, malinconica. Un po’ come nel finale di Rolls Royce, quel “Dio ti prego salvaci da questi giorni”, che sembra una invocazione a non sparire nell’anonimato, nello sparire via e basta, nell’essere dimenticati e buttati via (“tieni da parte un posto e segnati sti nomi”).
Che questa sorta di disperazione, di insofferenza verso il presente e di paura per il futuro, sia compensata da un ritorno al passato (musicale e iconografico) è forse il punto più interessante. Se Achille Lauro, come detto da lui stesso, vede il disco e il suo brano più famoso come “generazionale”, ci rimane da chiederci se l’unica speranza per affrontare il presente e salvarci dal futuro sia il passato, in una costante rilettura di “quello che è stato” che forse serve più a distrarci dall’angoscia dell’oggi che a spianarci una strada per il domani.
Nondimeno, non deve essere Achille Lauro il salvatore della nostra generazione, anzi. Il continuo riprendere e appellarsi a Dio, Lucifero, tra Angeli e Diavoli, serve a estetizzare la sua figura artistica come qualcosa “al di là” del presente, al di fuori di una generazione. Forse è questo il massimo traguardo cui Lauro aspira: diventare per approssimazione anche lui un Mito, un ubermensch, grazie alla Musica, al glam, al look.
E se per farlo serve scomodare Hendrix, Marilyn, James Deen, Elvis e perfino il David Bowie di Aladdin Sane (non lo dico io, guardate da voi la copertina) allora ben venga, perché 1969 è una sbruffonata, ma di quelle belle, che forse non cambierà la storia della Musica ma almeno ci fa ricordare che ci si può ancora divertire.