Questo nuovo disco di FAB sa di rock e di pop all’inglese maniera, di quelle lunghe ballate industriali che tanto fanno pensare agli U2, che troviamo in dischi come “No line on the horizon” – che non a caso è un disco inondato dal colore bianco che rimanda a paesaggi sospesi di nebbia e di foschia, ma anche ad interdizioni, attese, sfoghi di rabbie che sentiamo lontane…
Fabrizio Squillace in arte FAB pubblica questo secondo lavoro in autoproduzione dal titolo “Maps for Moon Lovers” e guarda caso tra i crediti scopriamo che il master proviene dai leggendari Abbey Road Studio. Dunque un disco di amore sicuramente, di un amore personale e romantico che io leggo più rivolto alla vita e alle sue tante sfumature che alla figura di una persona. Siamo un po’ tutti amanti, forse prima di noi stessi che del prossimo. Lo sguardo poetico del rocker calabrese è uno sguardo alto, lontano… come a guardare il mondo dalla Luna. Sono 8 inediti di belle sensazioni internazionali. Sono canzoni che forse devono pagare debiti di forma e di ispirazione a colossi fin troppo famosi, avremmo voluto una maggiore personalità e riconoscibilità. Com’è anche vero che la scrittura di Fab sembra infischiarsene delle sante etichette e fa sfoggio di quello che può nel modo più limpido e sincero possibile. E questo basta per fare di “Maps for Moon Lovers” un bel disco di questa nuove scena indie italiana.
Inizio proprio con una domanda che non può prescindere dopo aver ascoltato questo singolo. Quanto è alta la Luna?
È esattamente questa la domanda e dipende dal modo in cui i nostri occhi la guardano. Può risultare lontana e sfuggente, nascosta in un remoto angolo di cielo e non suggerire nulla. E può apparire tremendamente vicina, ammaliante e seducente, in grado di sussurrare ricordi lontani e indicare strade mai battute.
La luna è il giaciglio dei sognatori, degli audaci, di coloro che provano a dare delle risposte a domande scomode. Sa essere un faro che illumina, che coccola e rassicura. In certi momenti, in determinati crocevia, rivolgere lo sguardo al cielo e cercarla tra le nuvole scure può essere confortante e ispirante.
Che poi alla Luna, come fossimo lupi, cosa stai chiedendo o che futuro affidi?
Il riferimento ai lupi non è affatto fuori luogo poiché credo che la necessità di trovare una risposta nel cielo trovi origine nei nostri istinti più profondi, un bisogno primordiale che prescinde dalla logica e dallo stato evolutivo. Una celebrazione dell’istinto, dunque, e non a caso. Le storie di “Maps for moon lovers” tessono una tela intricata di personaggi che si incrociano e somigliano con la loro voglia di decifrare il mondo di oggi. Spesso faticano, paiono smarriti e senza idee, ma alla fine svelano un dettaglio importante dei tempi che viviamo. Ognuno chiede alla luna una chiave di lettura, una bussola per districarsi e incamminarsi verso il futuro. Un futuro meno basato sulla ricerca del successo ad ogni costo, che dia più valore alla pace globale, che accetti una volta per tutte il concetto di diversità, che ritrovi la forza di esaltare una comunicazione reale.
Inevitabilmente questo disco è ricco di rimandi e di visioni. Sembra quasi “inutile” soffermarsi sulla forma canzone. Politica: in senso romantico anch’esso, c’è della politica in questo disco?
Se torniamo al concetto iniziale da cui nasce questo disco, a quel satellite in avaria che scruta dall’alto le vicende umane, è chiaro che allora si può individuare un senso “politico” in questo disco. La politica, d’altronde, si basa sull’esaltazione di quel valore specifico piuttosto che di un altro, e determinati valori, determinate idee, specifici modi di intendere l’esistenza vengono indubbiamente suggeriti a chi ascolta la canzoni di “Maps for moon lovers”. Un brano come “Sleep”, che affronta il tema attualissimo dei migranti, celebra l’idea di uguaglianza, valore che, al di là della politica e dell’appartenenza ad una fazione piuttosto che ad un’altra, non può non essere considerato universale e universalmente condivisibile. Un disco che va oltre la politica, quindi, che abbraccia temi universali che non dovrebbero dipingersi di un colore. Pensiamo ancora a “Minuteman”, a quel missile che vola intorno al globo e ride del suo scopo, un brano che discute dell’inutilità dei conflitti e finisce per essere anch’esso politico, ma sempre in senso universale. “Maps for moon lovers” non riconosce le fazioni ma inneggia alla condivisione, quella reale.
Dopo un disco simile, un disco di umanità, di amore e di istinto, si diventa qualcosa di diverso che prima non avevi neanche immaginato? Oppure è solo consapevolezza che si dichiara pubblicamente?
È un semplice suggerimento, un sussurro tra un loop di MIcrokorg e un accordo aperto di chitarra. I protagonisti dell’album, attraverso le loro storie, svelano una prospettiva su alcune dinamiche contemporanee e offrono uno spartito da leggere. Uno dei tanti. All’ascoltatore spetta poi il compito di trarne le conclusioni più adatte. Ho adottato consapevolmente un approccio letterario, con queste otto storie connesse tra loro come una raccolta di racconti, perché intendevo confezionare un prodotto diverso, quasi come fosse un libro da leggere. Da qui la scelta di affidare a mio fratello Dario Squillace la scelta di un’immagine che raccontasse ogni singolo brano. Sfogliando il libretto che accompagna l’album fisico si ha la sensazione di aprire un piccolo contenitore d’arte e la soddisfazione di essere riuscito a creare un oggetto simile è davvero grande.
In italiano forse non potrebbe aver senso la tua musica… ma ci hai mai pensato?
Certo, più di una volta, ma credo fermamente che la musica che scrivo parli unicamente lingua inglese. D’altronde, in fase compositiva, i brani nascono immediatamente in questa lingua, senza necessità di adattamenti o forzature, e questo perché per me questa forma di composizione risulta totalmente naturale. Ho sempre scritto canzoni in lingua inglese, i miei ascolti vengono da oltremanica e non trovo strano tutto ciò, specialmente in tempi come i nostri, globali e interconnessi. Dovremmo utilizzare la globalità creata dall’era digitale sfruttandone le potenzialità positive e penso che la possibilità di cantare una canzone in una lingua che (solo apparentemente) non è la tua e poterla gettare a migliaia di chilometri di distanza con una tale facilità e velocità sia assolutamente incredibile. E i confini, quelli segnati su vetuste cartine geografiche, per il sottoscritto hanno un valore inutile, non raccontano chi siamo oggi, non dipingono il mondo con veridicità e proteggono solo anacronistici luoghi comuni.
Chiudiamo parlando di ispirazioni. Forse banale come domanda, ma in questo disco ci sono tante influenze e vorrei dare un ordine a tutti i nomi che ci vedo dentro. E dentro ci vedo la sospensione ghiacciata degli U2 come anche suoni che potrebbero prendersi gioco di noi come nei dischi dei Cure… ma sono solo punti di vista…
Sicuramente c’è qualcosa dei primi U2, band che ho ascoltato a lungo e che rimane un faro nella mia vita musicale. Certe atmosfere rarefatte, create grazie a pad rotondi che sostengono queste chitarre gonfie di delay, ricordano i loro primissimi lavori, quelli in cui in sala di regia c’era un tizio di nome Brian Eno, un genio del connubio rock- elettronica. Percorsi musicali, questi, che mi hanno sempre affascinato indicandomi nuove strade per appagare il mio bisogno incessante di sperimentare. Quanto a i Cure credo che qualcosa di loro può venir fuori da fraseggi melodici delle chitarre elettriche, semplici, immediate e oniriche. In generale, al di là di specifici nomi, penso ci sia un approccio molto brit e le atmosfere sospese di cui parli richiamano senza scorciatoie certi panorami che ho incontrato tante volte lungo il mio cammino e non potevano suggerirmi una colonna sonora diversa.