Mi chiamo Angelo Andrea Vegliante e sono un critico musicale. Oh, non è solo passione o piacere di scrivere, ma un lavoro vero, caratterizzato da formazione e aggiornamento. Requisiti indispensabili per realizzare prodotto sensati, ragionati e lungimiranti. Eppure, se sei un lavoratore preparato, di quelli con un solido background culturale, la voce del popolo ti contrasta, sei un radical chic, parte di una fantomatica élite. Come se l’essere in possesso di requisiti culturali fosse una colpa innominabile, un requisito discriminatorio che ti rende così diverso dagli altri da essere disprezzabile.
Perdonerete l’uso della prima persona, ma tutto ciò parte da un fatto personale. Precisamente un post sulla mia bacheca Facebook, scritto da un artista che ho intervistato più volte, al quale ho dato voce con un microfono in qualità di giornalista per far raccontare la sua storia, il suo disco, la sua musica. Tuttavia, da parte sua, nel mare magnum indefinito della virtualità, solo un concetto: “il critico musicale non è un professionista”.
La domanda mi risulta così surreale da aver faticato a pronunciarla anche solo nella mia mente. Cosa sarebbe un professionista? Un professionista – in qualsiasi ambito lavorativo – è un individuo in grado di mettere a frutto la propria formazione e le proprie capacità in ciò che fa, realizzando prodotti autorevoli, curiosi, innovativi, sagaci, apprezzabili. Insomma, lo riconosciamo perché il suo lavoro migliora ogni giorno, la sua firma è chiara, il suo operato non è un semplice ingranaggio, ma fa emergere qualcosa in più.
E allora perché il critico musicale non dovrebbe rientrare in questa accezione? Sia chiaro, come in tutti i contesti lavorativi, esistono sempre ‘i cani’, cioè quelli che si spacciano per divinità della penna che pensano di rivoluzionare il contesto attuale, anche se nella realtà oggettiva non fanno alcunché. Tuttavia, generalizzare in maniera qualunquista ci rende ‘cani’ allo stesso modo. Cercherò di spiegarmi meglio.
Il critico musicale intercetta le proposte artistiche a cui dare voce in base a processi stabiliti dalla linea editoriale di una determinata azienda, testata e realtà. Nel bene e nel male. Basti pensare al significato oggettivo della parola critica: “Scritto, saggio nel quale si esamini e si giudichi un’opera letteraria, artistica o scientifica, con particolare riguardo al giudizio o alla valutazione”. In sostanza, un critico non è tenuto a parlare sempre bene o sempre male di qualcuno, semplicemente è chiamato a realizzare un giudizio dettagliato su un qualcosa. Nel nostro caso, su un’artista.
Ci tengo a sottolineare l’oggettività del significato di critica, in quanto – così come ho detto prima riguardo i giornalisti – anche tra gli artisti serpeggiano personalità che si autodefiniscono divinità della musica scese in terra. Nonostante ciò, non bisogna pensare che ogni artista abbia un ego così spropositato. Badate bene: la musica è una cosa seria. Non si tratta solo di passaggi in radio o di raccogliere ascolti in streaming, ma ha un respiro profondo, che passa dal songwriting, dalla tecnica vocale e strumentale, dagli arrangiamenti e via discorrendo. Tutte caratteristiche che vengono notate dopo ore e ore passate ad ascoltare canzoni su canzoni. Che è quanto fa il critico musicale. Che poi, la critica in sé non si basa solamente sul dire se un album sia bello o brutto. Ma chiama in causa una serie di componenti con cui dare fondamento al giudizio.
Capiamoci: se un tuo album viene notato e riceve apprezzamenti da parte di una determinata testata giornalistica, sarai sempre il primo a festeggiare l’avvenimento, a condividere l’articolo sui social e a elogiare la firma; d’altro canto, se l’opera riceve pareri negativi, il problema è sempre di chi ha imbracciato la penna, che non ha capito la tua arte, il tuo pensiero, la tua filosofia di vita. Insomma, due pesi, due misure. Senza che avvenga quell’umile autocritica che serve dannatamente nel campo artistico: cioè, rendersi conto che non si può piacere a tutti.
Questo concetto ne chiama un altro a sua volta: non tutti possono parlare bene di te, proprio perché non si può piacere a tutti. Oggi come oggi, la socialità virtuale ci ha ingannato in un universo verticale nel quale ognuno di noi è un Super-io che dispensa attimi di saggezza per ogni cosa che fa, che dice e che canta. Questo discorso vale anche per me e per la mia categoria. Ed è proprio per questo che entrambe le parti devono lavorare non per tornaconto divino, ma semplicemente per amore di ciò che fanno, con professionalità e autorevolezza, riuscendo a migliorarsi sempre più, con umiltà e senso di giudizio critico.
Da sempre, prendersela con il critico musicale è un capro espiatorio, soprattutto quando lo riteniamo ostile. E con ostile intendo quando giudica in maniera negativa la nostra opera. Perciò, vige un pensiero che se il giornalista parla di noi, lo deve fare sempre bene. Non ci sono altre soluzioni. Inequivocabilmente. Perché l’intellettualità artistica non risiede più nell’esporre una critica, ma parlare di tutte le opere di tutti gli artisti come fossero perle rivoluzionarie da ascoltare, apprezzare e comprare. La stessa intellettualità artistica professata da chi la urla a destra e manca e la ritiene sacra, anche se questa, in certi casi, non sussiste.
Che poi, se l’artista pensa che qualsiasi giornalista sia qualunquista, radical chic e non idoneo alle proprie esigenze, c’è una soluzione molto efficace: non rivolgetevi ai giornalisti. Ma neanche a quelli che hanno parlato bene di voi, perché fanno parte della categoria. Non fate i paraculi, non andate a cercare solo chi ha spesso belle parole per voi – perché chi ha parlato bene di voi potrebbe averlo fatto senza fondamento culturale e musicale. Non chiamateci per chiedere interviste o recensioni, non collaborate con uffici stampa per far sì che parliamo di voi. Siate voi gli artefici di voi stessi, fatevi giudicare unicamente dalla ‘volontà popolare’.
Noi non siamo spartitraffico di cultura. Il nostro lavoro è consigliare il pubblico, stimolarlo. L’eterogeneità dell’informazione è splendida perché permette a più professionisti di parlare dello stesso album in modi diversi e, perciò, l’opinione pubblica – che non ha la stessa formazione di un professionista – è incoraggiata a esprimere un proprio giudizio critico. Dunque, non prendetevela sul personale se giudichiamo (con fondamento) il vostro album inferiore alle aspettative, e non siate troppo sfacciati nel comunicare solo ciò che vi fa comodo per passare un giorno da eroi moderni e l’altro da vittime innocenti. Non rosicate se una penna scrive che concettualmente il vostro album non sussiste e non gridate ai quattro venti l’euforia per un sound rimarcato da una testata. Altrimenti, si passa solo per ipocriti. Abbiate il coraggio di ammettere il bello e il cattivo tempo.
Chiudo con un ultimo concetto. In questi giorni si parla tanto dell’importanza della volontà popolare. La stessa volontà popolare che, in Italia, è composta dal 47% di analfabeti funzionali e che, nel mare magnum dell’informazione, si concentra su notiziole di dubbia provenienza, incapace di razionalizzare e andare al di là del titolo di un articolo. Insomma, tra un professionista che scrive di musica con riconosciuto e autorevole background e un tizio che pretende di essere filosofo questionando online sulle origini di Mahmood, io sceglierò sempre il primo. E non vuol dire essere radical chic (vengo da una famiglia povera e vivo in periferia, non so neanche che cosa sia un campari con un’oliva dentro). Si tratta semplicemente di scegliere se proseguire la mia vita utilizzando il cervello della pancia o della testa.
A voi la scelta.