– di Riccardo De Stefano
con la collaborazione di Riccardo Magni –
ph. copertina di Tamara Casula –
Il nuovo album della più romana delle band romane si chiama L’amore mio non more. Quello de Il Muro del Canto è un racconto in musica che attraversa i secoli, le situazioni, parlando del presente attraverso il passato e immaginando, quindi, un futuro.
Tempo su tempo, personale e cosmico, e Città – invisibili, invivibili – che diventano Mondo, sono gli ingredienti del nuovo lavoro de Il Muro del Canto, costituito da Daniele Coccia (voce), Alessandro Pieravanti (batteria e voce narrante), Ludovico Lamarra (basso), Alessandro Marinelli (fisarmonica) e Eric Caldironi (chitarra). Il complesso, recentemente orfano di Giancarlo Barbati (AKA Giancane), realizza un disco dalle tante sfumature: parliamo con la band di Roma, del Tempo e dell’Amore.
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Il disco è meno immediato rispetto Fiore de Niente, da metabolizzare. Non sembrano esserci riferimenti all’attualità, alla politica o al sociale, ma al passato. Quale è stato il quid del disco?
AP: L’attualità influenza le nostre vite, i nostri stati d’animo e in qualche modo quello che andiamo a raccontare, anche quando usiamo come escamotage il racconto del passato. Serve a far uscire fuori un malcontento verso quello che succede.
Ormai ci si aspetta che si prenda una posizione: sentite il peso di dovervi esporre, dato che avete sempre avuto l’interesse a manifestare certe posizioni?
DC: No, facciamo le cose d’istinto. Se la canzone parte dalla musica abbiamo un’atmosfera da rispettare, quello che ci evoca la musica. Ma tra le righe c’è tanto sociale, come in Cella 33: oggi non si parla più della condizione delle carceri, sembra ci siano altre priorità. Domani probabilmente è la canzone più sociale del nostro repertorio! Potrebbe sembrare scontato fare invece un testo sui migranti; non ci sembrava il caso perché ne hanno fatte tante ed è un presente che non ci piace.
AP: Supportiamo la causa suonando in contesti dove si lavora per l’integrazione, la multiculturalità e l’accoglienza nei confronti dei migranti, un tema che ci è caro ma che non diventa per forza una storia. Se senti l’obbligo di dover dire qualcosa rovini tutto, vuoi solo sfruttare un momento e questo non c’è mai interessato. Racconto la storia di Roma in Roma maledetta: ripercorro i fatti di cronaca nera di Roma, scomodando Romolo e Remo fino al Canaro, ma alla fine la Roma che ci fa paura è la Roma indifferente, cioè l’Italia indifferente. Questa indifferenza è la madre della maggior parte dei problemi di oggi.
C’è tanta Roma nel disco, forse anche più che nei dischi precedenti. In una realtà cittadina così contraddittoria, tra la dolce vita, la delinquenza, l’incapacità politica, come fa a non morire questo amore?
DC: Arrivi con l’esperienza a maturare un sentimento del genere, rispetto a tanta indifferenza e tanto vuoto che ci sembra che avanzi. È una forma di resistenza non tanto l’amare, ma custodire l’amore per tante cose: la passione per la musica, un po’ di speranza nell’umanità, fiducia nel futuro. Anche se L’amore mio non more è una canzone specificatamente d’amore, si applica a tante situazioni differenti. È un disco molto legato al tempo che passa: ci siamo concentrati sui ricordi, sulle nostre vite, gli affetti che vanno via, le condizioni che cambiano. Pure nella copertina c’è il bene il male, e tra il bene e il male esiste l’amore.
EC: Si deve resistere all’indifferenza, al vuoto che avanza nella contemporaneità e nella società. Resistere anche nei confronti del tempo, perché spesso nemico dell’essere umano, oppure dolce palliativo nei confronti di un amore che finisce.
AP: Il ritornello della canzone dice “Ma l’ amore mio non more“, e quel ma significa tutto quanto: è in quel ma il significato di questa resistenza.
Ci sono due brani italiano, Stoica e Il tempo perso per la prima volta. Che scelta è stata?
DC: Una scelta semplice: avevo già scritto il testo e abbiamo valutato l’idea. Non ci è dispiaciuto perché è stato messo in maniera molto efficace e semplice.
AP: Potrebbe sembrare che li abbiamo inseriti per provare ad ampliare il pubblico, però i brani non sono singoli allegri e leggeri, hanno un peso specifico importante. Noi siamo il Muro del Canto e facciamo questo, per il nostro pubblico: facciamo delle scelte fuori dalle dinamiche più comuni del mondo della musica leggera italiana.
Centrale nel vostro stile è l’atemporalità. La Roma che emerge è una Roma secolare, novecentesca. C’è il bisogno di togliere il quotidiano per affrontare questa visione di Roma-Mondo?
DC: Ci ho riflettuto molte volte: io tendo a rispettare l’immaginario della classica canzone romana, che non ha riferimenti se non vecchi. È un’epoca, questa, che non mi piace, che nella scrittura non mi è mai interessata.
EC: Il Novecento è il secolo che sentiamo nostro, quello che abbiamo vissuto nell’età più formativa: non siamo millennials, restiamo persone culturalmente figlie di tutte le fratture del Dopoguerra.
DC: È anche un modo per mantenere un’universalità dei concetti che vogliamo esprimere, senza che fra 20 anni diventino obsoleti, impossibili da capire. Oggi tanta musica usa un certo linguaggio che tra qualche tempo le nuove generazioni non capiranno. Sono canzoni usa e getta.
Spostando l’attenzione sui video, avete fatto due collaborazioni importanti, con Marco Giallini e Vinicio Marchioni: come sono avvenute?
AP: Giallini e Marchioni sono due simboli di Roma, molto legati alle loro radici popolari, anche se sono diventati tra i migliori attori in Italia. Ci piace questo essere legati a dei principi. Il Muro è sempre un dialogo, uno a uno: loro lavorano allo stesso modo e inevitabilmente ci siamo incontrati e “riconosciuti”. È venuta la voglia di fare qualcosa insieme, e vogliamo lavorare con persone che hanno una visione simile alla nostra. E loro ce l’hanno.
Un certo pop degli ultimi anni, etichettato come “scena romana”, ha abusato di una estetica anni 80, di una Roma “verdoniana”. La vostra Roma è diversa: c’è la volontà di uscire dal cliché della romanità piaciona?
AP: Se conosci il Muro del Canto, sai che non siamo mai stati per la “Roma piaciona”. È talmente distante da noi che non ci appartiene. Fare musica romana senza cadere in quei cliché non è semplice, ma non ci siamo impegnati perché non siamo noi nella vita così. Non ci interessa.
Secondo voi perché questa Roma alla “volemose bene” è diventata così radicata nell’immaginario collettivo?
EC: Fa parte delle maschere teatrali, quasi alla Goldoni: c’è il napoletano furbo, il romano dormiente e lento, il milanese preciso… Sono maschere che non rappresentano chi vive la vera città. Ci hanno giocato la televisione, il cinema…
AP: È fiction, finzione. Non ci appartiene, spero si capisca la differenza tra i Cesaroni e Gioacchino Belli. Chi ha una sensibilità artistica lo capisce, chi non ce l’ha si ascoltasse… la monnezza.
Al momento della partenza del tour, non c’era la data romana. Come mai?
AP: Ci sarà una grande festa: ci piace mettere insieme tanta gente e c’è tanto affetto intorno a noi. Abbiamo deciso di arrivare a Roma con una grande festa piuttosto che iniziare qui. All’inizio ha lasciato spiazzati anche noi, ma andando avanti abbiamo capito che rende giustizia alla città di Roma e dà grossa dignità a tutti gli altri posti, dove magari hai un decimo del pubblico, ma lo fai sentire privilegiato. È giusto mischiare le carte, stupire il pubblico e noi stessi.
Qual è il vostro rapporto con il pubblico di fuori? A Roma siete degli eroi, ma andare a Milano – per dire – è altrettanto facile?
DC: Quando abbiamo suonato nei Paesi Baschi il pubblico capiva poco, magari le parole simili. Però l’essenza del testo gli arrivava forse più forte là che magari da altre parti. A Milano o a Torino non c’è grossa differenza perché loro sentono questa sporcatura che è il dialetto romano, ma non è un dialetto stretto. Poi fuori da Roma dobbiamo rendere sempre di più: siamo più avvelenati, “ingrifati”.
EC: L’universalità del testo rende più semplice l’avvicinarsi dei non romani, è un sentimento che pervade chiunque. Magari non colgono dei nessi, ma sono curiosi. In Chi mistica mastica, dicevamo “Zi Prete sta bene ‘ndo sta“, e la gente ci chiedeva se ‘sto Zi Prete fosse un parente, mentre a Roma rappresenta il malandrino, il furbetto… viene colto in ritardo ma poi ci si arriva. Confrontando Stoica con altri pezzi bisogna farci caso che è un pezzo in italiano.
C’è la volontà di questo pubblico di scoprire i riferimenti propri della cultura romana e magari collegarli alla loro esperienza?
DC: C’è la volontà ma non so quanto poi approfondiscano. Dovremmo parlarci proprio, starci insieme. Una cosa viene percepita forte a Roma perché la capiamo noi, magari fuori risulta minore, ma può essere che altre cose le avvertano di più. Poi certo, ci sono cose, tipo “Roma che non sei romano se non hai
salito tre scalini“, che sono delle chicchette che poi si vanno a cercare. Forse si rischia di perdere qualcosa, ma è il rischio normale del raccontare.
Beh, spiegate ai non romani cosa sono “i tre scalini” adesso!
AP: Significa che se non sei stato a Regina Coeli non sei romano… cioè se non hai commesso un crimine non sei romano. È un detto antico, quando per sbarcare il lunario dovevi fare qualcosa di non prettamente legale, ma è una cosa di ampio respiro. Da parte nostra c’è la volontà di costruire un immaginario, una narrazione, non è semplicemente la scelta di parole o di rime.
Quanto è importante per voi il “raccontare” qualcosa?
AP: È vitale per noi procedere per immagini, per storie, cercare di far calare l’ascoltatore in un immaginario definito. Farlo sentire all’interno di un film, un racconto, una narrazione teatrale, un quadro: tutto quello che si lega alle immagini. Quando pensi al Muro del Canto pensi a un’idea, il pubblico deve vivere un’esperienza immaginifica, visionaria – in senso buono. Lo storytelling è probabilmente la chiave di molte cose.
Oltre la temporalità oggettiva, la Storia – con la esse maiuscola – c’è il tempo soggettivo, Il Tempo perso. Come lo affrontate questo macigno che all’uomo – con la u minuscola – grava sulla testa?
DC: il miglior tempo perso è quello da dedicare all’Arte. Io faccio un lavoro d’attesa e mi rendo conto che è improduttivo. Ho iniziato a produrre in maniera ossessiva proprio perché mi sentivo inutile, così ho iniziato a scrivere un sacco di roba. Il modo di renderlo utile è creare. Oppure dormire perché sono stanco, e quello sarebbe l’ideale!
AP: Il tempo perso è quello di cui hai consapevolezza quando ti fermi e ti guardi indietro. Se pensiamo a tutto quello che abbiamo fatto, i dischi, le centinaia di concerti, forse non lo abbiamo perso del tutto. C’è chi trova questa dignità nella vita di famiglia, nei figli o l’amicizia, o magari il tifo sportivo. Noi la nostra dignità la troviamo in quattro dischi che ci rappresentano e di cui siamo fieri.