_ di Lucia Santarelli.
Una leggera tenerezza nell’ascoltare “Il ballo della vita”, disco d’esordio dei Måneskin, in cui ci si perde tra la confusione di generi, di scelte linguistiche e artistiche: è la sfida tra la realtà e l’apparenza, nell’attesa di capire quale sia effettivamente l’identità di questa giovane band, illuminata dai flash, dalle luci di palchi, di set fotografici, di passerelle e piedistalli.
Così, all’ascolto delle 12 tracce del disco, ci si trova di fronte a dei dubbi, a delle domande lecite che non necessitano più di tanto delle risposte; il primo album dei Måneskin, pubblicato dopo 10 mesi dalla loro partecipazione a X-Factor, cos’è in fin dei conti? La somma di gesti di superiorità di chi crede di non aver bisogno di identificazione, di chi ha la supponenza di essere già stelle? Oppure un flusso di brani che spaziano tra il rock, funk, pop, addirittura rap e raggaeton, che riflettono la confusione pailettata di una generazione?
Fatto sta che “Il ballo della vita” riesce ad essere un prodotto provocatorio. Tutto questo non è poi necessariamente da additare. È anche giusto essere presuntuosi e accettare le sfide del mercato, interfacciarsi con molti generi, avendo la supponenza e la consapevolezza (o meno) di saperlo fare.
Fare musica, sentirla, percepirsi in qualcosa sono però azioni e sensazioni serie, soprattutto per chi intende imporsi sulla scena artistica odierna con la pretesa di lasciare proprio lì un’impronta. E per fare ciò non servono strani espedienti, come quello della musa Marlena di cui canta Damiano, frontman del gruppo, l’aria glam chic (o kitsch) e l’appellativo, troppo abusato, di rock star; però a quanto pare anche questi possono essere utili.
Ora, accantonando attese e pretese, dopo esser stati in tour presentando soprattutto cover, dopo esser stati protagonisti di un film sulla genesi del loro primo disco, per i Måneskin era necessario questo album d’esordio, che ha affascinato molti fan, illuso o disilluso tanti ascoltatori; “Il ballo della vita”, nonostante tutto, è però coerente con quello che Damiano, Victoria, Ethan e Thomas hanno costruito partendo da X-Factor. Basta anche solo questo per non denigrarli, bensì cercare di trovare il motivo per cui questa band ha avuto così successo, al di là della sua partecipazione al talent.
Ritrovarsi, in giovane età, tanta visibilità in poco tempo, avere a disposizione persone che lavorano per te, con te, su quello che crei e che ti darà il successo, è un po’ il sogno di tutti o almeno di molti. In fondo è la realizzazione di un desiderio, inglobato nella società che viviamo e che, per obbligo o necessità, ci sta bene così. Chiedersi cosa sia giusto o non giusto produrre al giorno d’oggi forse è insensato e sarebbe meglio invece lasciar che la gente ascolti con libertà ciò di cui al momento ha bisogno.
I Måneskin, da subito, hanno voluto al centro dei loro brani Marlena, di darle voce, di darle il significato di libertà di scelta? Bene, ci sta.
Così com’è lecita anche la confusione di scelte artistiche e linguistiche all’interno del disco, che stanno ad indicare i diversi stili musicali che ogni componente della band predilige. In linea con tutto questo è il brano che apre il disco, New Song; una partenza giusta, che segue l’onda di Chosen. Poi cambio di rotta, il primo di tanti, con Torna a casa, singolo che ha anticipato – dopo Morirò da re – l’uscita dell’album. Una ballad in cui i Måneskin si presentano in una nuova veste: c’è Marlena, sempre presente tanto da invadere il ritornello, che viene però evocata in maniera leggera dal pianoforte, dagli archi, dalla chitarra acustica e da una batteria poco invadente, che presenta delle accelerazioni sul finale.
Poi si arriva a L’altra dimensione, fatta di sonorità latineggianti, gitane, che rievocano il divertimento di una festa, quella della spensieratezza che porta a considerare la libertà come un qualcosa di semplice. Le parole lontane è parte di quella libertà, ma presentata in chiave malinconica, proiettata al futuro, a considerazioni su ciò che verrà, tra le richieste naturali, che nascono dalla distanza urlata, tra ciò che vogliamo e ciò che vorremmo.
L’unico featuring dell’album è con Vegas Jones, in Immortale. Ecco che Damiano inizia a rappare, ad usare l’autotune e a sperimentare; a ripetere (forse per convincere o convincersi) “credimi, credimi, se lo senti è perché lo so fare”. Anche questa canzone, rap rock, è un passo, seppur diverso, de Il ballo della vita, che a sua volta è la ricerca di un trampolino di lancio di chi è stato abituato a salire subito sul podio o il disegno di un tragitto fatto di tappe alterate; la confusione, in tal senso, potrebbe essere invece considerata e percepita in riferimento alla realtà dei fatti, quella creata dalla necessità di presentarsi tra dubbi e libertà di un’età che ha bisogno di esprimersi come meglio crede, con presunzione o meno. E allora sì, è lì che i Måneskin hanno trovato la loro identità artistica.