di Riccardo De Stefano.
I tempi cambiano in fretta, le mode slittano, i volti una volta giovani diventano vecchi e tutto sfuma per lasciare solo il barlume di quello che era una volta, una scia luminosa in un cielo ormai nero.
Quello che una volta era nuovo, fresco, giovane e incendiario finisce col diventare forma, maniera, standard e cliché.
Così anche la trap, pensateci: solo qualche mese fa, neanche “anno”, tutto quello che ci appariva “trap” era straniante e insopportabile. Lo era il look, il linguaggio, l’ostentazione di soldi e potere, il doppio rolex sul palco del Primo Maggio. Tutto.
Poi a furia di Young Signorini (a proposito, si è sposato di recente, ammettendo che tutto quello che lo circondava era puro marketing) e storie Instagram, ci siamo abituati: “trap” è diventata una parola comune e non fa neanche più paura.
Così, la Dark Polo Gang non fa più notizia, oggi. C’è stata tanta “roba” sotto: l’exploit pirotecnico a base di bitch, troie e triplo 7 su ogni cosa, poi la droga, vera e (de)cantata, poi la crisi di Dark Side, anzi Side, anzi Arturo, anzi Arturo Bruni, che nella propria epopea di caduta e risalita ci è rimasto sotto e ha finito dall’altra parte della gang.
Chi rimane, va avanti, ed ecco allora Trap Lovers (anno 2018), il nuovo album della band, anzi della gang. Ma la notizia arriva sottotono, senza gente indignata, senza celebrazioni adolescenziali, senza rotocalchi in fiamme.
Eppure è il primo album che vede i protagonisti, Tony Effe, Dark Pyrex e Wayne Santana, performare insieme su ogni traccia, quasi a confermare l’obiettivo ultimo della DPG: diventare la nuova forma di boy band per gli adolescenti e non è un caso che gli artisti più volte citati nel disco siano Dua Lipa e Justin Bieber. Infatti i tre superstiti riescono nell’intento di riprodurre le dinamiche che resero celebri Take That e/o Backstreet Boys: essere cioè riconoscibili e identificabili come singoli, ma solo dentro un contenitore più “grande” e garante di significato, in questo caso la gang.
Forse per tutti questi fattori (l’essere ormai conosciuti, riconoscibili, l’esser sopravvissuti alle crisi interne) rende Trap Lovers un disco incredibilmente noioso. Baby che noia, lo dicono pure loro: il giochino della trap sembra aver raggiunto il suo punto più basso, dove tutto e dico tutto diventa mera ripetizione dei soliti concetti di TROIE – SOLDI – DROGA. Solo che la retorica del “siamo giovani ricchi e ribelli” non funziona più, non convince più: quando l’elemento di rottura della società e del costume prestabilito diventa essa stessa norma, cioè prevedibile e quindi addomesticabile, tutto il discorso non può fare altro che riversarsi nella autoreferenzialità.
LA TRAP COME MODELLO FORTE. SFERA E BASTA?
Infatti, se almeno nelle sue fasi più ingenue, la trap della DPG portava comunque la freschezza espressiva dell’arroganza post adolescenziale, superndo il modello debole dell’indie pop, perfino questa diventa manierismo vuoto.
In altre parole gli adolescenti di oggi – i nostri fratellini – sono cresciuti in un mondo che già di suo gli ha urlato nelle orecchie dal loro giorno 0 che non avranno pensione, né un lavoro stabile, mentre noi, trentenni disperati o prossimi a compiersi, lo abbiamo dovuto affrontare a cavallo tra la nostra infanzia e la nostra adolescenza, del tutto impreparati al mondo del lavoro. Ecco quindi per noi i Calcutta, i Cani, i Thegiornalisti: coetanei che ci consolano per il disagio intimo che proviamo.
I nostri fratellini invece hanno trovato in questi nuovi “eroi” la loro affermazione: perché cedere al modello debole di un Calcutta, perennemente introflesso dentro la propria intimità, quando la DPG gli dice che l’unica cosa che conta sono i soldi, i soldi e i soldi e che solo quelli li renderanno grandi (in tutti i sensi)?
Non che non ci siano contraddizioni, linguaggi che cozzano tra di loro e un generale dubbio sul reale senso di alcune esternazioni. Sfera Ebbasta, per esempio, infatti si barcamena tra droghe leggere, ragazze rubate ad altri e tutti i cliché del genere, per poi chiudersi in romanticismi come in Cupido, o in dichiarazioni anti droghe pesanti. Quindi? Sfera eroe trapboy che ruba le donne, le fotte e le butta via o simbolo del ragazzo normale che prima di tutto pensa a essere onesto con se stesso? Probabilmente nessuna delle due, quanto un ibrido necessario per potersi sovrapporre all’ideale giovanile di quest’epoca senza però esser necessariamente pericoloso.
Sfera Ebbasta infatti – e questo è il suo limite – è in realtà innocuo. È superficiale nel suo essere perfettamente comprensibile anche per chi esterno al genere e alle implicazioni generazionali. Sì, ci prova e parla di “money” e “gang”, ma è vacuo e apparente come una storia molto filtrata su Instagram.
Però funziona, anzi, è totale nel suo rappresentare una generazione, quella dei nostri fratellini piccoli, che sono nati già sapendo che non ci arriveranno alla pensione e che il lavoro, alla fine, sarà da ridefinire pure come concetto. Per questo è vincente l’estetica della Trap: la frustrazione di un adolescente nei confronti delle aspettative che dovrà soddisfare – non ci sono soldi, i rapporti umani si frammentano – per contrasto esplode nel denaro come unica igiene del mondo e nel rubare la donna all’altro (ed eviteremo di mettere in luce l’inevitabile misoginia sottesa al discorso, dove la donna è solo feticcio da prendere, usare e buttare).
È una sbruffonata, ma manifesta. Sì, i soldi, le donne. Ma tutto messo lì per darti fastidio. Ricchi per sempre o forse no, vabbé fa niente. Perché se la gente pensa che fai schifo, che sei disturbante, allora meglio dargli ragione e andare all-in, mostrarglielo già dalla copertina. Il riscatto attraverso lo sprofondare nella perversa estetica del diverso.
Quello di Sfera, Rockstar, è un disco in realtà molto più politico e sociale di quello che possa sembrare. Sotto la copertura e il fumo (di erba) si avverte un malessere. Una insoddisfazione dei nuovi ventenni che non conosco altra ragione che dimostrare agli altri di avercela fatta (anche se non è vero). Voglio dire, il metro di giudizio è quante visualizzazioni delle storie abbiamo su Instagram, no? Allora iniziamo a ripetere una bugia un milione di volte fino a quando non diventa reale.
SONO SOLO CANZONETTE: ACHILLE LAURO PARAPPAPPA
Dall’altro lato, c’è il puro piacere edonistico. Il divertimento sfrenato, il capire che alla fine tutto può essere buttato all’aria. Per questo, altro esempio, il disco di Achille Lauro è puro e godibile come un qualsiasi prodotto pop: perché Pour L’amour ha la capacità di resistere al cliché e di avere una cosa che sempre più viene persa, cioè l’autoironia. Se gli stilemi del genere sono bene evidenziati nel suo lavoro – alla fine le tematiche sono quelle di sempre – Achille Lauro grazie alla svolta Samba Trap opera di Boss Doms ha come obiettivo principale far ballare tutti i presenti in sala e i risultati hanno dimensioni epiche. Prendete una Thoiry Remix e mettetela in un locale per avere un successo assicurato. I (presunti) contenuti della trap – che siano della DPG, di un Ghali o di uno Sfera – vengono messi in netto secondo piano, puro gioco fonetico dove l’obiettivo è dimenarsi sul ritornello, praticamente sempre centrale e ripetitivo, ipnotico, da trance (BULGARI BULGARI – SEMBRA DI STARE A THOIRY – AMORE MI – AMORE AMORE AMORE – PARAPPAPPA e via dicendo). Achille Lauro è l’aspetto meno violento, meno gang della trap, ma quello più colorato, divertente, kitsch, sopra le righe e in un certo senso disturbante. È glam trap, è teatro e finzione urlata e dichiarata, un gioco colorato dove non puoi né forse vuoi – neanche tu giovane trapboy – diventare come lui, eppure non riesci a staccargli gli occhi di dosso.
LA DPG E IL DECADENTISMO TRAP
In ultimo, dopo questo breve excursus in alcuni esempi del genere, torniamo sulla Dark Polo Gang e il loro dichiarato manifesto Trap Lovers.
Dov’è il discorso di riscatto di Sfera Ebbasta, il suo modello forte? Dov’è l'(auto)ironia di un Achille Lauro?
A sentire – e risentire – Trap Lovers l’unica cosa che emerge è proprio la noia.
Baby che noia.
La noia del successo, del denaro che non è conquista ma conferma, delle “troie” – sempre accennate e abbozzate, mai descritte, mai conosciute o capite, a malapena usate – che stanno lì come simpatici oggetti su cui posare ogni tanto la propria attenzione. Neanche più la droga, che forse diventa unica possibile via di fuga dalla noia stessa, ma ormai espediente conosciuto e esplorato a fondo, sviscerato e assorbito dentro le vene, rendendoci totalmente assuefatti a ogni brivido di vitalità.
Si vede che il gioco, per la DPG, è diventato altro: hanno davvero raggiunto il top della vetta – ormai tutti ci conoscono – e da lì ogni cosa appare piatta e uniforme, minuscola. Così, si riducono a cantare della loro quotidianità fatta sempre delle stesse cose: soldi, donne e droga, svuotando di senso ognuna di queste cose, e facendocene perdere sia il piacere che il desiderio.
È un disco che mostra la band tremendamente seria nel suo sentirsi arrivata, quasi adulta ormai che lo showbiz l’hanno “vinto”, distaccata da tutto e quindi senza più nulla di rilevante da dire. Non c’è spirito di emulazione perché troppo in alto loro e troppo distanti dagli altri. Non sono neanche un modello da seguire perché non esiste più la “voglia” di raggiungere quel mondo che di colorato, ormai, ha molto poco (chiedetelo ad Arturo).
È brutto quando ti svegli e ti rendi conto che sei un adulto. Quando il tempo non solo di sbagliare è finito, ma è proprio cambiato il tuo modo di pensare l’“errore”. Ho pagato caro il prezzo di questo successo, tutti i soldi del mondo non coprono la nostalgia. Prima, tutto era gioco, era divertimento, sbruffonata. Adesso è slogan, messaggio commerciale, impatto generazionale. Quello che dici, che fai, non conta se ci credi o no: come l’ennesima bugia, se la ripeti in continuazione, diventa verità. Così, ancora una volta, sei intrappolato nel tuo personaggio, sei il cliché, il riflesso speculare di quello che volevi distruggere. Tra manager, etichette, edizioni, storie Instagram, edonismo e fan adoranti rimane la reiterata cantilena che i soldi fanno la felicità e che nessuno ci butterà giù: soldi che fai e stai facendo fare, e che dovrai continuare a far fare, altrimenti tutta la recita collassa, il gelato si scioglie e sei costretto a lasciare la gang.