di Riccardo Magni.
foto di Giovanna Onofri.
Musica per Bambini è il quarto album in studio di Rancore, al secolo Tarek Iurcich, rapper romano classe ’89 attivo sin dai primi 2000. Il suo talento non lo scopriamo certo ora e nemmeno la bellezza del suo ultimo disco, uscito l’1 giugno (Hermetic / distr. Artist First). Recensioni positive, parole d’elogio ovunque, non è difficile capire in quasi quattro mesi quando un disco abbia fatto centro tra pubblico e critica. Ma per quanto possa far piacere, per l’affetto o l’ammirazione che si può nutrire verso un artista, il vero riconoscimento lo si dà in modo personale. Il valore di certi dischi lo riconosci per il brivido che ti percorre e per la voglia immutata nel tempo di ascoltarli. E dico voglia, non qualcosa tipo “se passa in radio lo ascolto volentieri”, ma bisogno vero di ascoltarli.
Potendo farlo in anteprima poi, al giungere della data d’uscita e della contemporanea presentazione instore, ero già completamente inondato dalla bellezza, dalla passione, dalla rabbia, dalle parole e dai suoni, dall’essere “totale” direi, di questo disco. Un disco che mi ha portato a riascoltare Rap dopo qualcosa come almeno quindici, venti anni.
In quell’occasione alla Feltrinelli di Via Appia, ho potuto dirglielo e fargli qualche domanda per un’intervista che poi ci ho messo troppo tempo a scrivere. Non è stato poi così facile: qualche anno fa, sarei stato tra quei ragazzi timidi che hanno inviato la loro domanda via mail e tutto si sarebbero aspettati, tranne essere chiamati a porgliela dal vivo, davanti a tutti.
Meglio tardissimo che mai, l’intervista eccola qua. Rancore non è tipo da presentarsi con frasi roboanti ed autoreferenziali tipo “questa è la mia nuova bomba” o “questo è il mio disco più bello” e non lo ha fatto.
“Si perché comunque è già tutto nel disco ciò che volevo dire…” commenta lui sorridendo.
Ed in effetti è un disco particolare perché nonostante nei precedenti ci sia moltissimo di tuo, sapere che qui per la prima volta hai fatto tutto tu, ce lo fa sembrare ancor più una tua espressione.
È molto importante per me sentirlo dire, perché è stato un lavoro immenso riuscire a scrivere tutto un disco e dirigere musicalmente la produzione ed appena pochi mesi fa non ero sicuro di riuscire a terminarlo. Ovviamente è stato possibile solo grazie all’aiuto dei produttori, dei musicisti, di tutti i vecchi amici con cui avevo già collaborato, altrimenti non ce l’avrei fatta. Ma la musica serve anche ad unire ed in questo caso, essere stato il fulcro primario di questa unione è per me una grande soddisfazione.
Si chiama Musica per Bambini ma in realtà sono molto cresciuto alla fine di questo disco, e sono contento che si percepisca che c’è un ragazzo che sta cercando di esprimersi e ce la mette tutta per farlo, creando un disco in cui ha messo dentro veramente tutto se stesso.
Depressissimo è stato il secondo singolo estratto. Sui social, la canzone è stata presentata come quella più intima, più sincera e più un sacco di altre cose…
Hai detto che la musica è un antidepressivo, una psicoterapia. Quanto hai conosciuto da vicino la depressione? E quanto sarebbe necessario parlarne di più?
Sicuramente se ne parla poco, viene stigmatizzata, ed è un problema grave, è la malattia più diffusa del nostro tempo. L’ho vissuta da molto vicino sia in prima persona che come amico di persone che poi hanno trovato soluzioni, farmacologiche o di altro tipo. Ho deciso di parlarne perché vedo che lo fanno in pochi, tanto mi sono sempre voluto prendere la briga di parlare di cose che in giro non sentivo, a costo di mettermi io in una luce strana, pericolosa o criticabile. Nei dischi con Dj Mike, nei featuring, ho sempre cercato di dire ciò che generalmente “non può essere detto”, e non parlo di irriverenza o volgarità, ma di concetti che sono talmente difficili da trattare che solo un hermetic hip hop, cioè un rap che ha più livelli di interpretazione, può riuscire a dire. Ovviamente non sono l’unico in Italia che lo fa, ma il mio lavoro mentale è principalmente proprio questo.
Depressissimo è il mio tentativo di raccontare questa cosa, ho cercato di farlo nel modo che ritengo più giusto, ovvero non in maniera tragica ma nemmeno comica, direi tragicomica, cercando di avvicinarmi il più possibile alla complessità che vive nello spirito umano, indipendentemente che stia male o bene.
Restando sul tema dei messaggi, hai preso chiaramente le distanze da un certo tipo di rap (è musica che non vende, di certo non fa i milioni… musica che non parla di soldi e di medaglioni…), ma in questo lavoro hai cercato comunque di semplificare la lettura di questi tuoi messaggi.
Ogni equazione va semplificata affinché diventi un teorema applicabile, ho fatto la stessa identica cosa. Poi ovviamente l’equazione resta complessa di per se, però la semplificazione sta nel cercare di eliminare quelle parti, quegli ingranaggi, che potevano portare ad una fatica. Ho cercato in questo senso di rassodare più che semplificare, mantenendo comunque alto il grado di complessità e contraddizione, perché secondo me quando riesci a vivere nella complessità ed anche nelle contraddizioni, hai raggiunto un buon livello di non chiusura mentale nella vita, e di conseguenza anche nell’espressione artistica.
Chiunque ascolta però, recepisce il messaggio a suo modo, secondo la sue esperienze, le sue sensazioni. Non è così raro che sia diverso da quello che l’autore aveva lanciato. Come scendi a patti con questo?
La vivo bene per il semplice fatto che considero questa musica un po’ uno specchio, sta lì su una parete e decidi tu se guardarla, ma se lo fai nello specchio vedi te stesso, non vedi me. Certo, io cerco di esprimermi lì dentro, ma so di essere pressoché identico a tutte le persone che ascoltano e quindi so che quando parlo di me, specialmente se lo faccio in una maniera ermetica, creo uno specchio. Specchiandoti vedrai te stesso ma riflesso da qualcosa costruito da me, dentro cui ti mostro un range di cose da vedere, e starà a te poi scegliere cosa vedere e cosa no, anche a seconda di cosa senti nel momento in cui ascolti. La canzone è una cosa che vivi sul momento, una cosa che non tocchi, è un attimo. In quell’attimo si possono ritrovare tantissime sfaccettature, diverse personalità che si avvicinano a quell’attimo possono scoprire insieme a me quello che io ho già in parte scoperto e deciso di appuntare, come su un diario, mentre scrivevo la canzone.
Depressissimo è stata ovviamente accompagnata da un video.
Ma anche il primo singolo Uderman aveva un video molto particolare, sono state realizzate anche delle illustrazioni, dei fumetti e delle grafiche molto belle, addirittura una locandina in stile cinematografico. Poco prima avevi preso parte alla realizzazione del video di Ipocondria di Giancane che ha visto l’esordio di Zerocalcare nel mondo dei videoclip musicali, e sappiamo dal racconto del regista Bastanimotion che lavorare a quel video è stato molto divertente…
È stato bellissimo. Sono diventato amico di Giancane dalla collaborazione nel suo disco, voglio dirlo perché è raro che accada. Da questa collaborazione sono nate una serie di cose in modo molto spontaneo, che mi hanno portato ad essere partecipe di qualcosa che non mi sarei mai aspettato come il primo videoclip musicale animato di Zerocalcare. Ho avuto la possibilità di conoscere Michele (Zerocalcare) un po’ più da vicino nella fase di produzione, anche se già ci conoscevamo per questioni geografiche, io sono del Tufello, lui di Rebibbia. Con Bastanimotion avevo già lavorato ad altri videoclip. Si è creata un’atmosfera particolare che ci ha portato a divertirci molto nel realizzare questo video, che poi è divertente di suo.
Questa contaminazione, questo incontro tra arti diverse, figurative e musicali in questo caso, quanto è importante e quanto stimolante?
Importantissimo. La musica deve unire, non dividere, ed Ipocondria ne è l’esempio. Io la vivo come una continua scoperta di come la creatività abbia anche lei mille sfaccettature, di come una cosa che non tocchi come la musica, che passa da uno solo dei sensi che è l’udito, si possa unire a qualcosa che vedi come le immagini, o che tocchi, come può essere un fumetto. Stessa cosa in Underman, ciò che tu ascolti contemporaneamente lo vedi e si crea un’esperienza a 360 gradi. Io la vivo così. Per questo abbiamo lavorato a lungo su questi video, è stato impegnativo, ma solo se ci lavori tanto riesci a dare le giuste immagini ai suoni.
Presentando il disco, hai voluto dare modo ai fan di inviarti delle domande. Leggendole, mentre arrivavano, cosa provavi? Che sensazioni ti hanno rimandato le curiosità espresse da chi ti ascolta?
Mi fa piacere che mandando una semplice mail in cui chiedo di inviarmi delle domande ne arrivino tantissime, è segno che c’è un interesse. E non è scontato. Ha un grandissimo valore sapere che ciò che stai facendo c’è qualcuno che lo aspetta, che lo ascolta e che si pone dei dubbi. Visto che la mia musica serve in particolar modo a generare fantasie e rompere alcuni schemi. E quando rompi gli schemi si generano naturalmente delle domande, è giusto che sia così ed è bello vedere che ci sono delle menti che recepiscono ciò che dico ed hanno domande da farmi, significa che le cose sono in movimento e non statiche. Magari non prendono neanche per buono al cento per cento quello che dico ed è giusto così, altrimenti significherebbe che non avrei fatto una musica sfaccettata, ma una musica che dice una cosa sola.
E così torniamo all’interpretazione personale dei messaggi da parte di chi ascolta…
Che passa poi attraverso le domande che loro mi fanno, con cui io riesco a comprendere meglio se quello che dico può arrivare o anche non arrivare.
O appunto, arrivare in modi diversi…
Esatto. Come detto, questa musica vuole essere uno specchio. Altrimenti sarebbe una musica che parla solo di me. E sarebbe pallosissima!