di Pierangelo Milano
Immaginatevi un fonico assopito ricevere una chiamata, in piena notte, da un artista appena congedatosi dalla musa Euterpe, in preda all’ansia di non perdere l’attimo buono e attraversato dalla fulgida luce dell’ispirazione, sentirsi dire: «Dobbiamo registrare!». È così, in fin dei conti, che inizia il travaglio che porterà Tommaso Di Giulio a partorire il suo ultimo disco, Lingue, uscito il 30 marzo per Leave Music.
Dal quel seme piantato al chiaroscuro delle luci arancioni di Roma, ne nasce un lavoro dominato da tendenze opposte.
Del tutto privato, ma non intimista, paradossalmente più propenso a un ascolto collettivo piuttosto che individuale. Uno di quei dischi che metti su con gli amici sulla strada per il mare.
Un vaso che contiene umori e storie differenti, da cui estrarre relazioni a distanza e corridoi d’ospedale, malinconia e speranza. Eppure, ancorché apparentemente schietto, Lingue si scopre un disco non facilmente decifrabile, che richiede tempo
perché si riescano a cogliere, inglobati in un monolitico arrangiamento pop-rock, i segnali delle sue qualità poetiche.