di Riccardo De Stefano
illustrazioni di Eleonora Pepe
Il decimo album in studio degli Zen Circus è un viaggio dentro i rapporti umani. Vita e Morte, genitori e figli sono i temi portanti di un album che è proiettato verso l’interno. Di Amore, di Morte e di altre sciocchezze ne parliamo con Karim Qqru.
Sono questi gli anni del successo per gli Zen Circus?
Abbiamo iniziato a vivere di musica con Andate tutti affanculo, nel 2009. Prima era una roba da miseria vera, facevamo lavori improbabili. Poi con Viva e La terza guerra mondiale è esploso tutto. Ma non c’è mai stato hype per gli Zen. Non è mai stato l’anno degli Zen Circus.
Cosa comporta l’hype?
Che se esce un disco e se non fa subito sold out, qualcosa non va. Una volta un gruppo del nostro giro faceva 700 persone, ora subito i palazzetti. Non è normale fare una gavetta lunga come la nostra, ma neanche il botto subito, serve il tempo per metabolizzare. Ormai raccogliete due generazioni: chi è cresciuto con voi, più i nuovi (post)adolescenti.
C’è differenza tra questi due pubblici?
Sì, quella fetta che è arrivata da Viva spesso non sa neanche che cantavamo in inglese. L’età media si è allargata e questo fa correre dei rischi, il messaggio arriva con più difficoltà e viene stigmatizzato sempre di più. È molto facile dare per scontate le cose.
Il fuoco in una stanza dà il benvenuto su disco al Maestro Francesco Pellegrini.
Ha portato freschezza e gioventù, senza ironia. Non serviva un turnista ma un amico che ci aiutasse con le chitarra e i controcanti. Ha fatto bene sia a noi sia dal vivo e credo che i concerti migliori sono stati quelli con lui.
Non paghi, avete aggiunto un’orchestra. Sarà impossibile riprodurla dal vivo?
Avevamo già usato fiati e archi per Villa Inferno ma non così, c’è una densità nell’arrangiamento diversa. Ne facciamo un uso molto anni ’60 in Il fuoco in una stanza e Il mondo come lo vorrei. In La stagione invece allarga il piano armonico: è uno dei pezzi che viene meglio dal vivo. Siamo sempre riusciti a riarrangiare i pezzi quando c’erano strumenti non consoni. Fosse stato tutto un disco orchestrale sarebbe diverso, ma non useremo sintetizzatori o altro.
È un addio agli Zen acustici?
I pezzi acustici sono stati il nostro tratto distintivo, unire il folk e il punk. Con La terza guerra mondiale già non ci rappresentavano più. Come produzione siamo andati avanti, è una cosa legata al passato. Da ragazzini avevamo i Violent Femmes come faro, ora siamo più noi.
Caro Luca è un brano dove non suona nessuno della band.
L’orchestra permette risultati che con chitarra e voce non avremmo mai ottenuto. Serve a chiudere in modo amaro il disco: Luca è il protagonista di Vecchi senza esperienza [da Andate tutti affanculo, ndr]; abbiamo molti amici che per vari motivi si sono chiusi e sono spariti dalla società, autoesiliati. In questo mondo complicato i social ci illudono, ma ci sono tanti piccoli drammi che nessun Instagram riuscirà a risolvere, perché sono giochi tra la persona, la società e le proprie paure.
Il disco esplora a fondo i rapporti umani. Centrali le figure dei genitori, ma non quelle dei figli.
Io sono l’unico che ha un figlio e sa cos’è la paternità. La figura della madre è presente in sette brani del disco. Sono i rapporti più difficili, soprattutto in Italia, dove è morboso il rapporto coi genitori. Io ho avuto un rapporto con i miei genitori molto pesante e sono uscito di casa a 19 anni perché era insostenibile la situazione, e ringrazio questa scelta. Dopo anni ho un rapporto decente con la mia famiglia, siamo contenti, ma non è per tutti andarsene e dormire in una casa invasa dai topi e la pioggia che ti cade in testa, mangiando una volta al giorno.
Spesso i nostri genitori sono degli eroi, poi li scopriamo umani. E qualcosa di loro lo porterai sempre nell’anima. Mio babbo viene da una famiglia sarda, tradizionale: lì non esiste contatto fisico perché devi diventare un uomo. Con mio figlio ho fatto il contrario perché avevo paura di diventare come mio padre. C’è sempre questa paura di sapere che per quanto tu possa lottare c’è il dna che non puoi cancellare. Tante volte il frutto non casca lontano dall’albero.
I due punti centrali sono la famiglia e il dolore. Qual è la catena che li unisce?
Le catene sono volute o indistruttibili, ma non sempre negative. La famiglia sviluppa una serie di dinamiche che ci portiamo fino alla tomba. Nel disco le esperienze personali servono per descrivere il mondo. Catene ha avuto molto riscontro: ci hanno scritto in molti, in lacrime, raccontando la loro storia. La canzone ha più piani di lettura: la famiglia, la morte, ma anche l’impossibilità di esternare i sentimenti.
Aleggia lo spettro della Morte, reale in Catene e annullata in Il Mondo come lo vorrei. Per esorcizzarla?
C’è un momento nella vita in cui capisci cos’è la Morte. A diciott’anni non ti interessa perché è lontana: io ero fuori di cervello e ora sono quasi una persona noiosa, nei canoni, che si avvia verso l’età matura. Molti amici sono morti quando eravamo ragazzini, così inizi a farti delle domande. L’adolescenza è l’età dell’innocenza che ti fa fare tante cazzate, ma quando capisci che la Morte è vera e tangibile, il tuo modo di vivere cambia. Il Mondo come lo vorrei è puro edonismo invece, il permettersi di fare tutto.
Come racconterai questo disco a tuo figlio quando sarà più grande?
Come un momento in cui eravamo arrivati a patti coi nostri fantasmi, quando capisci che i rapporti con le persone che ami non sono una linea retta, non è tutto semplice. Serve capire le proprie idiosincrasie, venirsi incontro perché ognuno ha un percorso che lo ha portato ad essere così. Spesso le persone si comportano in modo sbagliato –o positivo– e neanche sanno perché. Fare un figlio è rinunciare al proprio egoismo. È un qualcosa di ancestrale che non riesci a spiegare. Non è solo un disco negativo, benché oscuro e denso.