Andrea, parliamo di Out Stack Record: quando e da quale necessità è nata quest’etichetta?
Ciao Francesco, grazie del tuo interesse. L’idea di Out Stack Records nasce nel febbraio del 2016, ma erano anni che fantasticavo di aprire un’etichetta.
Tutto ha inizio quando l’amico Francesco Galavotti, che canta e suona la chitarra nei Cabrera, mi chiede di dargli una mano per sistemare i testi di un suo nuovo progetto solista cantato in inglese, One Glass Eye. Mi passa le demo dei pezzi registrate col microfono del Mac e mi ritrovo ad ascoltare soltanto quelle canzoni in loop per le due settimane successive. L’idea dell’etichetta è nata da li’ ed è venuta naturalmente: avevo qualche soldo da parte, la curiosità di fare una cosa nuova, la voglia di mettermi in gioco e il disco giusto al momento giusto della persona giusta per iniziare. Un mese dopo siamo andati in studio a registrare ‘Elasmotherium’, uscito nell’ottobre del 2016 per me e V4V. Nel frattempo sono usciti altri quattro dischi e ne stanno per uscire parecchi altri.
La parola ‘necessità’ mi sembra un po’ troppo forte, almeno per il mio caso, ma direi che Out Stack Records è nata dalla volontà di collaborare con degli amici e di creare con loro qualcosa di importante, ma soprattutto dalla voglia di creare un ambiente – inteso meno metaforicamente di quanto possa sembrare – da popolare di dischi, di eventi, di concerti, in fin dei conti di persone.
Ed è da questa suggestione che è nato il nome dell’etichetta?
Il nome dell’etichetta deriva dall’isola di Out Stack, l’isola più a nord del Regno Unito, conosciuta anche come il ‘punto fermo alla fine della Gran Bretagna’, che altro non è che un piccolo affioramento di roccia disabitata in mezzo al mare, sul quale non c’è forma alcuna di vita e dopo di cui, in linea d’aria, non c’è più niente fino al Polo Nord. Out Stack Records vuole utilizzare quella roccia silenziosa in mezzo al mare come metafora, per popolarla, renderla viva e avvicinarla alla terra ferma.
Per mesi mi sono arrovellato su quale nome dare all’etichetta, ma quando ho trovato Out Stack per puro caso su una mappa, l’idea è nata in un istante. Aggiungici che sono l’unico a portare avanti tutta la baracca e che quindi, immancabilmente, ogni tanto mi senta un po’ un’isoletta in mezzo al mare e il gioco è fatto.
A che tipo di pubblico intendete rivolgervi con le vostre produzioni?
Ad un pubblico il più largo possibile. Anche il più possibile largo di vedute, direi. Out Stack non vuole essere un’etichetta di genere o nemmeno pubblicare solamente musica di un certo ‘umore’, per quanto esistano molte etichette che seguono questa via che mi piacciono molto, mi viene in mente in primis Boring Machines.
Ascolto svariati generi musicali, dal pop all’hip hop, dal free jazz all’elettronica, dal noise al folk, dalle tamarrate al drone, mi piacciono i contrasti e mi piace variare. Quindi per l’etichetta non ci saranno mai limiti di genere, solo limiti di gusti personali e limiti economici. Per puro caso ho iniziato pubblicando due dischi legati in qualche modo all’emo, cioè appunto ‘Elasmotherium’ di One Glass Eye, che potrei definire emo-folk, e il secondo disco dei Cabrera, ‘Una Montagna In Casa’, che invece è più emo-post rock, ma non voglio assolutamente essere un’etichetta emo, che è un genere che in verità ha cose che adoro ma tante altre che mi lasciano del tutto indifferente. Sono infatti molto contento che l’ultima uscita dell’etichetta sia stata “We All Think We’re Good People” dei Tweeedo, un trio di amici delle mie zone (provincia di Cuneo) che fa elettronica, mischiando la techno al jazz e all’improvvisazione: tre talenti assoluti. Dopo i lacrimoni, viva la cassa dritta.
Come si declina in termini di esperienza live?
Tengo molto all’aspetto degli eventi live che da quasi due anni organizzo, a cadenza mensile, sotto forma di house concerts. Anche in questi casi mi piace usare la metafora di Out Stack come luogo, come se l’isola disabitata diventasse un locale da concerti. A guardare indietro, sono passati di qui anche nomi come Matt Elliott, Comaneci e Bob Corn, che da anni suonano in mezzo mondo. Piccola anticipazione: il prossimo mese arriverà Claudio Rocchetti.
Ogni anno inoltre organizzo l’Out Stack Festival, che quest’estate arriverà alla sua terza edizione. Ogni volta, in una sola serata, cerco di far suonare almeno sei o sette progetti e creare più contrasti possibili, passando senza stacchi dal noise all’ambient, dal rock alla techno, dal cantautorato alla sperimentazione. Tutti insieme, allegramente. Vivendo in provincia, è raro trovare occasioni di questo genere, anche se negli ultimi anni inizia a esserci più gente che organizza concerti di un certo tipo, molte volte anche perdendoci dei soldi, per il gusto e la necessità – ora sì – di farlo. Io, nel mio piccolo, faccio del mio meglio. Chi viene gradisce, scopre, ritorna e io continuo, contento. Sempre meglio.
Avete nel vostro roster artisti che scrivono sia in italiano che in inglese. Che differenze ci sono nella produzione e nella promozione di artisti che si esprimono in lingue diverse?
Da parte mia, in quanto etichetta, non c’è nessuna differenza: se pubblico un disco è perché ci credo, al di là della lingua utilizzata, e di sicuro non mi faccio fermare da presupposte barriere linguistiche o ragionamenti di marketing. E’ però ovvio che siamo in un momento in cui, anche per gli indipendenti, in Italia funziona il cantato in italiano, se con funzionare si intende (provare a) fare grandi numeri in Italia. Cantando in inglese però si possono ancora fare grandi tour, grandi dischi e prendersi grandi soddisfazioni; magari non si suonerà al MiAmi, ma non credo che chi inizi un progetto in inglese in Italia in questo momento si illuda ancora di potere trovare aperte le stesse porte di chi canta in italiano. Sicuramente ne troverà altre che chi canta in italiano non si vedrà aperte così facilmente. E’ tutta una questione di scelte e, mi viene da dire, anche di esigenze: ci sono canzoni e progetti che escono naturalmente in una lingua e così devono essere. Mi sembra ovvio. Chi sta dietro la promozione di un disco si sbatte comunque per farlo girare e ascoltare il più possibile, indipendentemente dalla lingua usata da chi canta. Bisogna essere realistici, ma anche furbi: se si canta in inglese e si rimane solo in Italia, senza andare a suonare all’estero, non si usa un’arma potentissima che è quella di poter suonare per chiunque, ovunque. Gli esempi in Italia ci sono, basti guardare per esempio a band come i Father Murphy, che suonano da anni in tutto il mondo e che sono diventati ormai un nome di riferimento.
Riguardo la produzione di dischi in inglese, sono estremamente fissato e puntiglioso con la pronuncia. Se si canta in inglese, bisogna almeno avere una bella padronanza della lingua.
Quando faccio uscire un disco di solito cerco di seguirlo fin da quando chi l’ha scritto entra in studio di registrazione ed è già anche successo che abbia fatto effettivamente da produttore: la pronuncia è la prima cosa sulla quale rompo le palle, poi viene il resto. Non c’è niente di più triste che sentire un disco che ti piace rovinato da una pronuncia imbarazzante. Almeno per me, che sono fissato.
Quali sono le difficoltà maggiori nell’inserirsi in un mondo così affollato come quello della musica per un’etichetta appena nata?
Se con un etichetta indipendente fondata da poco si spera di trovare subito riscontri da parte del grande pubblico, vendere abbastanza dischi da guadagnarci veramente o fare il botto, l’attaccamento alla realtà di chi ci spera è parecchio basso. Le etichette indipendenti sono un marea, i gruppi che vogliono uscire ancora di più e la gente che vuole fare cose infinita. La mia è un’etichetta giovane, non ha nemmeno tre anni, c’è ancora tanta strada da fare: pian piano si cresce, ci si allarga, si impara sempre, si migliora sempre, non si finisce mai di fare meglio. Credo sia importante partire dal proprio territorio ma non dimenticarsi del resto del mondo, osare, mandare dischi in giro, non pensare sempre e solo ai soldi, creare una rete di rapporti, di conoscenze. Se la voglia e la determinazione ci sono, le cose belle, se devono arrivare, arrivano. Quindi nessuna difficoltà per ora, nessuna lamentela, solo una normale strada da percorrere.
Mi parli dei progetti di Out Stack Records per il 2018 e per il futuro?
Volentieri. Sta finalmente per uscire, a maggio, il secondo disco di One Glass Eye, “Sea You”, che da progetto solista è diventato una band di quattro elementi. Dico finalmente perché è stato registrato l’anno scorso, ma per un motivo o per l’altro vede la luce soltanto ora. Sono ‘solo’ cinque pezzi ma penso siano in assoluto la miglior cosa mai registrata da Francesco.
Con il mio duo, Byenow, abbiamo avuto il piacere di far parte della band che ha registrato il nuovo disco di Bob Corn, a sette anni di distanza dall’ultimo. E’ stato fatto tutto in analogico, su nastro, in cinque a suonare, dal vivo, in una vecchia casa di campagna. Niente computer, niente ritocchi: ovviamente è venuto una bomba. Anche quello uscirà in vinile per Out Stack. Non so ancora precisamente quando ma anche il nostro disco dei Byenow uscirà per Out Stack, sicuramente entro l’anno.
Nel frattempo i Cabrera, con un chitarrista e un bassista nuovo, stanno lavorando al loro terzo disco. Ci vorrà un po’ di tempo e magari un po’ di fatica, ma quando uscirà, se tutto va come deve andare, sarà una bomba. I ragazzi hanno già una quindicina di pezzi in cantiere e sono prolifici come non mai.
A pensarci, ora come ora sarei contento di fare uscire qualcosa di più sperimentale: un disco di jazz improv di scuola europea o un disco drone, chissà. Ci sono due o tre persone che, se solo si muovessero a registrare, avrebbero i dischi giusti giusti per me, come il mio batterista Nicholas Remondino col suo progetto solista o Cop-Killin’ Beat.
Altro piano per il futuro è quello di iniziare a pubblicare dei CD-R dei live che organizzo qua: pochissime copie, molto curate, per il piacere di testimoniare quello che è stato. L’ho già fatto con una compilation del primo Out Stack Festival ed è andata sold out in due giorni.
Nel frattempo, appunto, sto già pensando all’Out Stack Festival di quest’anno e non mancheranno delle soprese notevoli, direi. Per ora non mi sbilancio, che poi mi porto sfiga da solo.
Il piano ultimo per il futuro? Andare su Out Stack e lasciare tutti i dischi lì, su quella pietra in mezzo al mare. Prima o poi lo faccio. Prima o poi.
A questo link potrete trovare maggiori informazioni e lo store online della Out Stack Records: http://outstackrecords.bigcartel.com/
Francesco Pepe