Zibba debutta nel ’98 col gruppo Zibba e Almalibre. Dopo vent’anni, sette album e svariate esperienze come ghost writer per altri artisti, esce il 2 febbraio 2018 Le cose, disco prodotto insieme a Simone Sproccati (L’Officina della Camomilla), contenente numerose collaborazioni. Dopo aver recensito l’album mi è venuta in mente qualche domanda sul lavoro di Zibba e le ho proposte direttamente all’artista.
Telefono a Zibba all’orario dell’appuntamento, lui risponde, ci salutiamo e mi chiede di dargli un minuto mentre si infila la giacca ed esce dallo studio. Lo sento discutere di armonizzazioni e ritornelli, poi torna da me, pronto per iniziare l’intervista.
Scusa, ora sono tutto tuo.
Ciao Zibba! Vorrei chiederti delle “cose” sul tuo ultimo album, permettimi la battuta (ride: “Assolutamente!”). Partirei dal titolo, Le cose, che è piuttosto generico. A che cosa ti riferisci, quali sono queste “cose”?
A volte per descrivere una cosa non posso che chiamarla “una cosa”. La parola compare in ogni canzone, al singolare o al plurale. È un modo di esprimersi. Per esempio in una canzone del disco (“Le cose inutili” con Alex Britti, NdR) dico: “Ci sarò sempre per le cose che contano ancora, per le incertezze, per le cose inutili”. Le “cose che contano ancora”, per noi… Come lo dici in un altro modo?
I testi di quest’album contengono una serie di immagini, come delle fotografie, delle conversazioni dal sapore quotidiano, e forse è per questo che è facile ritrovarsi nei tuoi testi. Queste “cose” sono prese dalla tua vita di tutti i giorni?
È un modo di scrivere che ho da sempre. Sì, credo che la cosa che mi ha tenuto vicino al pubblico in questi anni sia proprio la condivisione, la “condivisibilità” di quello che dico. Quello che scrivo è molto autobiografico, sono proprio “le mie cose”, buttate nero su bianco.
Vent’anni fa nascevano Zibba e Almalibre e in questi anni sono cambiate molte cose. Se potessi, che consiglio, pensiero, incoraggiamento vorresti dare allo Zibba ventenne, all’inizio della sua carriera?
Semplicemente: “Guarda, nessuno ti sta chiedendo di farlo. È una tua scelta, per cui cerca di ponderare bene tutto quanto”. È solo da pochi anni che sono pagato da qualcuno per questo, che qualcuno investe su di me. Da giovane ho investito tantissimo, certe volte in modo incosciente, perché ci credevo tanto, in un modo da ragazzino. Avevo quella cosa che avevano i ventenni, volevo che qualcuno mi riconoscesse un talento. Forse il primo a doverlo riconoscere in me stesso dovevo essere io e magari a 16-17 anni ho perso tempo a cercare di farmi notare. Col tempo ho imparato e mi rendo conto che sono stato proprio un ventenne degli anni ’90, anche negli errori (ride).
Comunque anche se vieni dagli anni ’90 abbiamo visto con quest’album che respiri un sound “giovane”; infatti in quest’album ci sono molti emergenti. Che cosa ne pensi della musica che va per la maggiore tra i giovani, come potremmo dire generalizzando l’accoppiata indie-trap?
Sono decisamente fan di entrambi i mondi. I mondi di appartenenza sono più ampi, il cantautorato che sfocia nell’indie è interessante, ma anche quello più stupido e volatile che è la trap, che comunque ha qualcosa da dire, è un buon modo di veicolare messaggi ai ragazzi. Alcuni fra quelli che stimo di più come Izi, Rkomi, Tedua o anche Ghali hanno portato dei messaggi forti e importanti alla loro generazione, hanno fatto del bene. Credo che queste due scene siano importanti in questo momento storico e che vadano sostenute. Io vado a vedere molto spesso concerti di entrambi i generi.
Qual è il tuo punto di vista sugli autori provenienti da questi ambienti, come un Calcutta o un Tommaso Paradiso che scrive per artisti di altri mondi?
È una sorta di rivincita di un mondo del quale faccio parte, perché io scrivo canzoni come loro, siamo quella cosa lì, per questo la trovo una cosa molto figa. I loro interventi nel pop dell’ultimo anno sono le cose che mi sono piaciute di più al mondo, quindi ben venga!
Tu infatti sei autore per artisti di generi diversi dal tuo…
Sì, mi sembra di essere quello che nel disco fa la “mosca bianca”: nel disco di Patty Pravo c’è un mio pezzo (“Qualche cosa di diverso”, NdR) che non è un singolo, ma a detta dei suoi fan la rappresenta molto, lei stessa dice che è cucito su di lei… Per me quello è l’importante, che sia la perla in un disco, magari più standard o più legato ai tempi che questo pop sta vivendo adesso.
Che cosa comporta essere autori adesso in Italia?
A volte comporta scontrarsi con delle politiche discografiche dove non si ha voce in capitolo. Tu pensi di aver individuato una cosa, di aver messo a fuoco un’idea e magari il discografico semplicemente la pensa diversamente. Io faccio anche il direttore artistico e mi sto occupando di dar voce ad artisti più giovani, a cose che io trovo interessanti che ci sono in giro, però a modo mio, cercando di far sì che l’etichetta per cui curo quest’aspetto abbia una politica più legata a com’era in passato: “Mi piaci, funzioni, faccio il meglio per te”.
Nel tempo sei passato da “Zibba e Almalibre” a solo “Zibba”. Sei più un tipo da band, che scrive le canzoni con tutto il gruppo, oppure un cantautore che lavora da solo?
Sono sempre stato un cantautore, mi sono scritto delle cose che portavo in saletta e le provavo con gli altri. Sono sempre stato produttore dei miei dischi, ho sempre scelto quali parti avrebbe dovuto suonare quello o quell’altro, dare le direttive è sempre stato il mio ruolo. Ho sempre sognato di avere una band affiatata come gli Stones, persone che scrivono insieme, che vivono insieme la parte creativa. Questa cosa non mi è mai successa, solo in parte in una delle ultime “versioni” della band, e l’abbiamo patita un po’ tutti, secondo me. Con Andrea (Andrea Balestrieri, batterista del gruppo) sono 22 anni che suoniamo insieme, e qualche anno fa con l’ultima formazione della band ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: “Forse ‘Zibba e Almalibre’ è fuorviante come nome” e siccome a Sanremo non mi era stata data la possibilità di portare la band abbiamo deciso che da quel momento avremmo abbandonato il secondo nome. Non c’è stata nessuna scissione, i membri che hanno voluto rimanere ci sono, quelli che hanno cambiato vita non ci sono più, è normale.
Sei autore di quasi tutti i testi di quest’album, da cui mi sembra che emergano vari aspetti di te, tra tutti uno Zibba allegro, impaziente di fare, che vuole “non smettere di andare” (“Quello che si sente”, NdR) e cose così, e uno più malinconico, più da: “Lo sai che io mi stanco troppo, che non mi piace quasi niente, in fondo” (“Le cose inutili”, NdR). Ci sono tanti Zibba in questo disco o sono riflessioni che convivono bene insieme?
Convivono, convivono! Il mio “mood” tendenzialmente è quello malinconico, non perché mi succeda qualcosa di brutto, anzi, la mia vita è una delle più felici che conosco: ho una bellissima famiglia, amici fantastici, il lavoro mi va bene e sono una persona apprezzata. La mia malinconia è per com’è il mondo e per com’è la vita, a volte semplicemente perché sono consapevole che a un certo punto morirò e tutto questo non ci sarà più. Queste cose sono banali, ma mi fanno vivere tutto in modo malinconico. Quello che provo a fare è guardare tutto da un punto di vista diverso e la mia voglia di andare, di non smettere, è quella di trovare un altro punto di vista per stare meno male, motivo in più per sorridere e dimenticarmi di quelle cose che mi fanno essere malinconico. La convivenza è un po’ questa, una lotta tra la vita e la morte.
Lo ringrazio, lui ringrazia me e ci diamo appuntamento all’1 marzo, all’inizio del suo tour all’Alcatraz di Milano. Ci salutiamo e poi torna in studio.
Giacomo Daneluzzo