Ronf. Ronf. Prr. Il suono delle russate e di qualche innocente flatulenza notturna. Siamo al campeggio. Almeno con l’alloggio non siamo messi male. Abbiamo una tenda da serie A, con tanto di due ambienti da due metri e mezzo l’uno e abbastanza spazio per stare in piedi dentro la tenda. In piedi. Non sono abituato a questo lusso. Devo farci il callo. L’unico problema, semmai è che abbiamo montato il tutto con la metà dei picchetti per prestarne un po’ alle diciottenni toscane che si sono piazzate davanti a noi. Vabbè, capirai, cosa vuoi che succeda. COME NO.
Il tutto si è svolto in quest’ordine: verso le sei del mattino sento Nicola alzarsi dal sacco a pelo e andare all’entrata della tenda. Non so perché ero in dormiveglia, qualcosa doveva avermi svegliato perché di solito dormo come un sasso. Neanche il tempo di formulare questo pensiero e sento un rombo potentissimo venire da vicino. Fico, sono ricominciati i concerti. Peccato che a suonare fosse una tromba d’aria.
Ci alziamo e tentiamo di capire cosa succede. Siamo colti da una risata isterica. Dopo una gomma forata, una macchinetta fotografica quasi rotta, una coda bestiale e un portafoglio quasi perso ci mancava questa. Un temporale. Un fottutissimo temporale del c***o. Mentre ci ribadiamo a vicenda quanto siamo increduli e io domando a Nicola se avesse rotto uno specchio o picchiato una vecchia, insomma, se avesse fatto qualcosa che potesse giustificare la sfiga e questa ritorsione del karma su di noi, vediamo la parete sinistra della tenda venirci incontro per abbracciarci. Ma noi non siamo in vena di coccole. Capiamo che i picchetti hanno deciso di interrompere il nostro rapporto lavorativo e sono andati a farsi benedire. Ci mettiamo a reggere la tenda che tenta di afflosciarsi su se stessa e io, in uno slancio di arroganza, urlo molto cinematograficamente al cielo: “E’ tutto qui quello che sai fare?”. Poi la tempesta si calma e resta solo il diluvio.
Scopriamo con enorme piacere che l’ingresso è in parte allagato e mettiamo in salvo gli zaini. La mia copia de Lo Zen e l’Arte della Manutenzione della Motocicletta è andata a bagnomaria insieme a un paio di magliette. Sento la chiamata del giornalismo-verità e tiro fuori la go-pro per documentare l’accaduto e ampliare il nostro diario di bordo. Ancora non crediamo a quello che è successo e continuiamo a ridere come pazzi. Poi, dopo una mezz’oretta decidiamo di andare a dormire e di lasciarci questa giornata alle spalle.
Quando ci svegliamo, nel campeggio ci sono metà delle tende. Il piacere di affondare nel fango con le infradito e gli occhi ancora impastati di sonno è secondo soltanto a quello di farsi una doccia gelata in un container. Qualcuno, nelle docce, si è anche liberato lo stomaco lasciando lì, trionfante, il risultato dei suoi sforzi. Lo so, è dura da digerire, ma il report di un festival non può trascendere da certi dettagli, non fosse altro che serve da monito per i posteri. Insomma, ci svegliamo del tutto e facciamo il punto della questione. La situazione, in fondo, non è così critica: nell’ingresso ci sono solo un paio di chiazze d’acqua e fuori il fango non è di certo come quello in cui si gettavano gli hippie a Woodstock. Il problema, semmai, è quello di capire come in due metri quadri di spazio, l’acqua sia riuscita a raggiungere soltanto quegli angoli in cui era nascosta la nostra roba. Misteri.
Andiamo a fare colazione. Le criticità dell’Home Festival di quest’anno, secondo me, sono tutte da ricercare nell’organizzazione del campeggio e dei servizi annessi. Perché è in questi particolari che si fa un grande festival ed è qui che si nota l’abissale differenza fra le realtà europee e quelle italiane. Far pagare 15 euro a persona (attenzione, non a tenda) per notte, equivale rendere manifesta la volontà di spillare quanti più soldi possibili dalle persone che vengono al tuo festival e senza le quali esso non esiterebbe neanche. Lo Sziget ha il campeggio libero, prese per la corrente gratuite e bagni agibili e comodi da usare. Se poi si ha bisogno di un servizio di qualità superiore, è sempre possibile pagare qualcosa in più e alloggiare in aree apposite che offrono addirittura il wi-fi . L’Home Festival, invece, offre un campeggio a pagamento, docce fredde e per usufruire di una presa elettrica bisogna pagare ulteriori dieci euro per affittare una cassetta di sicurezza, perché le prese nei bagni sono debitamente staccate. Ora, non è per fare polemica, ma questo intero concetto di camping a un festival dovrebbe essere riscritto. Il punto è che all’Home Festival non conviene adottare il sistema del campeggio libero, perché di campeggiatori, in effetti, ce ne erano pochissimi e più di metà delle piazzole era vuota. Ma allora, se la maggior parte del pubblico accorre dall’hinterland, non conviene neanche insistere su questo ampio respiro europeo a cui ambisce la kermesse.
Prendiamo un caffè e ci sediamo a un tavolino. Conosciamo una simpatica peruviana di Terni che a Terni, però, non si è mai ambientata, perché le ragazze, dice, pensano solo ad apparire. È parlando di cose di questo tipo che ci arriva la mazzata. Dritta sul collo, nel pieno della nuca, quasi da farci sbattere la testa sul tavolo. La data dell’1 è annullata. Niente. Nada. Neanche due accordi su un ukulele e Liam Gallagher che fischietta. Le reazioni sono queste:
Io mi deprimo come non mai. So che non è professionale dirlo, ma la mia attesa, oggi, sarebbe stata tutta per lui. La motivazione ufficiale dell’annullamento della data è quella del controllo dei danni apportati alle strutture dalla tromba d’aria della sera prima. Va bene, amen, mettiamoci l’anima in pace e andiamo all’hotel dove abbiamo ritirato gli accrediti, così ricarichiamo i cellulari e ci rimettiamo in contatto con le nostre famiglie. E poi lui potrebbe essere lì nei dintorni.
All’uscita del festival c’è l’apocalisse. Un gruppo ben nutrito di pischelletti romani (la sera prima avevo scommesso con Nicola e Emanuele che quando avrebbe suonato Liam Gallagher, Treviso si sarebbe trasformata in una periferia romana) si agita intorno a un addetto della sicurezza, sprecandosi in improperi e insulti non riportabili in questa sede. In effetti, qualcuno ha anche degli argomenti validi. Il ritardo nell’avviso dell’annullamento della data è costato un sacco di benzina a un sacco di persone che sono tornate indietro. Ma non si può fare un festival, prima di controllare se si può effettivamente fare. La nota positiva sta nel coro di Don’t Look Back In Anger intonato dal nutrito gruppo di ragazzi e ragazze che occupa l’autobus che ci riporta in città. Che poi, scegliere una delle poche canzoni degli Oasis non cantate da Liam è un po’ un controsenso.
Noi scendiamo prima, all’hotel. Come prevedibile, del fratellino Gallagher neanche l’ombra. In compenso, incrociamo Gaspar Augé dei Justice, ma siamo troppo timidi per chiedergli una foto.
Non starò qui a raccontarvi il resto dell’avventura e a parlarvi di tutte le cose in cui ci siamo imbattuti in seguito, tipo i tizi che praticano il sesso ascellare, Trieste e le pizze napoletane di Imola mangiate alle cinque del pomeriggio. So anche che non è professionale scrivere un report a metà, avendo visto metà dei concerti e forse manco quella, dato l’annullamento. So che questo report non avrà alcun significato dopo che i Thegiornalisti hanno riscritto la storia del trash italiano, suonando Maracaibo con Jerry Calà. Ma so anche che un festival non si esaurisce soltanto in quello che accade sul palco, ma anche in quello che si consuma prima, durante e dopo il suo svolgimento. Un festival è un viaggio, non fosse altro che serve un viaggio per arrivarci. Ed è quello che, in fondo, abbiamo intrapreso noi.