Mettiti seduto comodo e tieniti forte, perché nelle prossime righe demolirò completamente la fottuta scena indie italiana.
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Ecco, adesso puoi tornare a rilassarti. Non accadrà niente del genere, ma in un articolo in cui si parla di hype e di strizzatine d’occhio al pubblico mi sembrava doverosa una partenza col botto, assolutamente necessaria a sbigliettare. Qualcosa come “Cambogia non esiste!”, magari dopo un titolo in cui si paventa un trollaggio su larga scala.
La storia ormai è nota, o perlomeno dovrebbe esserlo se avete aperto questo articolo: Cambogia, il cantautore siciliano col pallino di un altro collega dal nome “geografico”, è in realtà un progetto artificiale, costruito pezzo per pezzo, dal volto fino all’etichetta, passando per forza di cose per musica e testi.
Del progetto Cambogia vero e proprio non è molto interessante parlare, per almeno tre motivi:
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Cambogia, ovviamente, esiste. Non avrà la faccia barbuta che credevamo, ma conosciamo bene la sua voce, il suo stile compositivo, financo la sua poetica – passatemi il termine. Cambogia canta, quindi è.
A qualcuno interessa davvero che le canzoni dei primi Monkees, quelle pre-emancipazione, le scrivesse qualcun altro? La risposta è no. I Monkees esistono, e hanno avuto una grossa influenza sui Beatles (cit.)
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Il mistero che circonda un musicista è un espediente talmente tanto vecchio da non essere più considerato neanche un elemento distintivo. La stessa scena indie recente si è saturata di artisti che si esibiscono in maschera, o di cui si conosce solo il nome d’arte.
Chi è Cambogia? Boh, è uno, uno qualsiasi. Tanto continueremo a chiamarlo Cambogia. Peraltro mi rendo conto adesso di non conoscere il cognome di Calcutta.
Nel suo spazio Facebook la cosa importante non era il misteriosa, era il pagina di.
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Di “trollaggio” non se n’è visto molto, sia perché manca il sottotesto critico (che lezione ci hai insegnato?), sia perché la rivelazione (così come il mare) non è niente di speciale, sia perché il tutto proviene da illustri sconosciuti.
Di fatto, questo coming out potrebbe essere semplicemente il tentativo di chiudere un progetto senza sbocchi per sfruttarne l’onda a favore della propria carriera musicale, che finora non ha mai avuto la visibilità raggiunta dal fittizio barbuto. La rivolta del ghost writer.
No, quello che ci insegna la vicenda Cambogia è piuttosto quanto sia facile confezionare un prodotto a perfetto uso e consumo della scena musicale indie, se così la vogliamo chiamare.
Quando il suo primo singolo ha cominciato a fare capolino in giro è stato impossibile non notare le numerose analogie con l’indiano. Ma al netto di queste, Cambogia non era una parodia: non c’era niente di ironico nella sua proposta lirico-musicale (per dire, avete presente Savastano?). Era un Whopper servito a una platea appassionata di Big Mac: perfettamente analogo, forse addirittura preferibile.
E proprio come per i panini, c’è una precisa ricetta da seguire. Se il pane-musica e la carne-testi non sono andati a male, si troverà sicuramente qualcuno disposto ad apprezzarli.
Cambogia dimostra che anche senza un’importante promozione alle spalle, è possibile assurgere a un certo grado di notorietà nazionale semplicemente riflettendo le pareti della scena che si vuole occupare. La classica progressione di accordi fifties in tutte le sue variazioni, un sound pseudo-retro e soprattutto un’infornata di testi che impastano l’ermetismo spicciolo con la più sfacciata enumerazione di topos della cultura pop: ho 7 vite e un cacciavite, per cena mangio solamente margherite (Oki – possibile nessuno ci avesse pensato prima?).
Basta aggiungere qualche meme rodato, e il pranzo è servito. Una sorta di apericena dell’hype, per chi non si può permettere di andare al ristorante.
Solo che, ecco, diamo per buono che lui lo faceva apposta. Troppi altri invece no.
Non si tratta di imitare il cantautore littorio, anche perché lui è “soltanto” l’interprete più visibile del fenomeno, non certo un antesignano di qualche genere. Si tratta di iscriversi volontariamente a un genere retrocesso a sottogenere, ripiegatosi su se stesso fino a diventare bidimensionale.
C’è un altro sottogenere musicale che ha conosciuto la stessa sorte. Di base è puro pop, ma nei fatti è ben rinchiuso in una gabbia rigida, pensata per non spaventare troppo la sua nicchia di fruitori abituali, non troppo avvezzi a lasciarsi sorprendere.
Al posto di C-G-Am compare qualche sesta napoletana. Al posto di Mentana c’è qualche boss della Camorra, ma di fatto siamo lì, nel manierismo puro. L’indie (sempre se così lo vogliamo chiamare) sarà il prossimo neomelodico napoletano.
Il che – attenzione – non vuol dire che da un sistema limitato e autoreferenziale non possa uscire qualcosa di buono. Adolescenza Tropicale, nonostante una strofa che scimmiotta il Pezzali meno ispirato, è un pezzo che mi sono canticchiato per mesi. E continuo a farlo tuttora, con estremo diletto.
Sono sicuro che qualcosa di buono ci sia anche nella discografia di Rosario Miraggio, ma vi prego, non costringetemi a scoprirlo, sono solo umano.
Vuol dire invece che l’indie, questo indie, si avvia a diventare una sorta di bene rifugio: un qualcosa dalla rendita scarsa ma sicura.
Nel cercare informazioni sul neomelodico, mi sono imbattuto nelle poche righe riservategli a malincuore nella pagina wikipedia “Canzone Napoletana”. Le ha scritte chiaramente qualcuno del posto, e una cosa è chiara: si vergogna.
Per questo dico di non chiamarlo indie, prima che sia troppo tardi. Qualcuno ha proposto disagismo, a me piace anche geografismo. Continuerà a sfornare buoni brani, ma sempre meno rilevanti, sempre più perniciosi per chi di musica (su di un palco o tra il pubblico) ci vive.
Luigi De Stefano