Da (non) ascoltare ad occhi chiusi.
– di Simone Spitoni –
I 43.Nove sono un giovane trio attivo dal 2020. Il loro disco di debutto arriva con “Ho perso di vista me”, un lavoro preceduto da un EP e numerosi live di successo all’attivo. Il disco è stato definito, da altri prima di me, come un album “da ascoltare ad occhi chiusi”.
Effettivamente nella mia lunghissima carriera di ascoltatore sono tanti gli album che ho amato ascoltare ad occhi chiusi: dischi che ti portano in un altro mondo, forse troppo surreali per essere apprezzabili dalla pienezza dei nostri sensi. Penso ad esempio ai primi tre album di Tricky, o ai Cluster o agli Ash Ra Tempel, tanto per citarne qualcuno.
Non sono d’accordo però con chi lega questa definizione a “Ho perso di vista me”. Ai miei sensi, si presenta come un album estremamente reale, che richiede di essere affrontato pienamente.
Descritto come un album tra il funk e l’indie pop, mi sembra piuttosto un tentativo – interessante – di ampliare sì i confini dell’indie pop, ma avvicinando tale genere alla musica ‘’urban’’ contemporanea. L’ascolto di “Immagini” non può non far tornare alla mente e alle orecchie il successo da classifica di alcuni anni fa “Senorita” di Shawn Mendes e Camila Cabello, con un rap ispirato al Salmo post-“Island Chainsaw Massacre” e quindi più ‘’addomesticato’’, ma senza la sua carica iconoclastica e polemica, e senza nemmeno il suo delizioso humour nerissimo.
Forse i momenti più felici sono i brani più legati alle sonorità del pianoforte come la titletrack “Ho perso di vista me”, “Potessi io” e “Storia di un uomo”, assolvendo i peccati veniali legati alla poca originalità dei testi e del cantato, elementi entrambi estremamente legati agli stilemi di vent’anni di indie it-pop.
Molto buono anche il brano “America”, uscito come singolo e forse il miglior brano dell’album in assoluto, pur senza brillare particolarmente per originalità. Ad ogni modo, fa parte comunque dei ‘’rischi’’ dell’opera prima: quando si è molto giovani, spesso si cerca di condensare in un solo album tutte le proprie influenze a rischio di seguire pedissequamente i modelli tanto amati.
Ecco, forse proprio partendo dalle sonorità di “America” il gruppo potrebbe impostare un secondo album sicuramente più interessante e valido; non che in questo disco di debutto manchino elementi buoni, niente affatto: è che mi pare più pedissequamente derivativo che sincero e libero.
Tuttavia il gruppo è capace e merita sicuramente di continuare, augurando loro un successo ancora maggiore e un secondo album che possa davvero dimostrare il loro valore, perché c’è.