“Sevdah” è il nuovo disco dei Mombao, duo composto da Damon Arabsolgar e Anselmo Luisi. Mombao però è molto più di un progetto musicale: è una creatura che si muove di vita propria ed ha un’estetica che mette radici in mondi diversi. Li abbiamo incontrati a Base (Milano) in occasione di una conferenza stampa decisamente poco usuale.
– di Martina Rossato –
Se solitamente alle conferenze stampa sono i giornalisti ad essere lì per gli artisti, nel caso dei Mombao ho avuto l’impressione che fossero Damon e Anselmo ad essere lì per me. Una volta arrivata a Base, infatti, mi hanno accolta con una tazza di tè e dei biscotti, che abbiamo gustato insieme, seduti su un bellissimo tappeto colorato:
«Questo è il tè di mio padre – mi racconta Damon – l’ho preparato con il samovar persiano che ha portato dall’Iran quando si è trasferito in Italia, prima degli anni ’70. Ho un legame molto forte con lui e le sue radici».
Damon e Anselmo si sono conosciuti tra i banchi dell’università, dove studiavano Economia e Management dei beni culturali. Da più di dieci anni – mi raccontano – hanno cominciato a suonare insieme, usando la casa dei genitori di Damon come sala prove. È lì che è nata la loro visione, sì, perché definire Mombao un semplice progetto discografico è decisamente riduttivo. Spinti dalla voglia di rendere il loro progetto realtà, hanno continuato a proiettarsi avanti, pianificando il futuro una visualizzazione dopo l’altra.
«Siamo molto diversi – proseguono – ma tra noi c’è sempre stata una sorta di attrazione nell’alterità, che ci rende in un certo senso complementari».
Questa idea è ben visualizzata anche nell’art work utilizzato come copertina di “Sevdah”: «L’aspetto grafico e fotografico sono parte del motore che ci aiuta a procedere. Non ci piace essere frontali nella comunicazione, il nostro progetto è circolare, proprio come la disposizione degli oggetti oggi».
Sul tappeto infatti non c’è solo il samovar, ma siamo circondati da una serie di oggetti, in particolare fotografie ed immagini (ma non solo), dentro ai quali hanno racchiuso con orgoglio e commozione la storia del loro progetto. Con noi c’è anche Giulio Favotto, che lavora con passione e dedizione con i Mombao, curando la parte foto e video.
Ogni elemento presente attorno a noi è un tassello fondamentale del loro percorso: ci sono foto dei tour nei Balcani e in Marocco, ci sono varie poesie, alcune immagini realizzate con intelligenza artificiale, delle fotogrammetrie, dei frame catturati da alcuni videoclip del duo, realizzati da Giulio. Si può dire che sia il terzo elemento dei Mombao e non perde occasione di prendere parte ai racconti di Anselmo e Damon. Tra le immagini, cattura la mia attenzione una foto scattata in un bosco.
«Sono foto scattate durante un workshop di teatro con Lucia Palladino. Fa un lavoro molto sottile sull’ascolto periferico, consiste nel condurre una comitiva in un bosco, guidata da una persona. La camminata deve essere “comoda”, non bisogna sentirsi a disagio, ma al tempo stesso deve essere “challenging”. Durante quel percorso entri in uno stato di coscienza alterato, i sensi si acuiscono e il gruppo comincia a muoversi in maniera organica».
Questo ci porta a parlare di un concetto fondamentale per i Mombao: l’interdipendenza. C’è infatti un legame di interdipendenza che avvicina l’uomo all’uomo, l’uomo alla natura e l’uomo alle macchine. E, a proposito di interdipendenza, non possono non parlarmi del progetto Milano Mediterranea:
«Milano Mediterranea è un collettivo di artisti associati (come i Mombao sono associati a Base) che organizza un festival al Giambellino [quartiere di Milano, ndr] per l’assegnazione di alcune residenze artistiche attraverso un comitato di quartiere. Proprio al Giambellino abbiamo lasciato una camera in mano alle persone, in modo che potessero fare dei filmati. Siamo andati a chiedere alle persone dei canti popolari del loro Paese di provenienza: spesso troviamo l’ispirazione grazie agli algoritmi di YouTube, in quel caso abbiamo raggiunto nuove realtà chiedendo direttamente alle persone. È stato interessante, tra l’altro ci aspettavamo che ci cantassero le canzoni, invece magari tiravano fuori i cellulari per farci vedere i video da internet [ride, ndr]».
L’interconnessione, in effetti, non è solo tra umani, ma anche con la tecnologia e l’affascinante mondo delle intelligenze artificiali. Introduciamo così il discorso sul solarpunk che, a differenza del cyberpunk, promuove una visione utopica e non distopica del futuro e della fantascienza.
«Il solarpunk usa la forza dell’immaginazione non per creare scenari apocalittici, ma scenari sostenibili, in relazione alla natura, al verde e agli animali. Si tratta di usare le nuove tecnologie per andare in quella direzione. È una visione molto positiva del futuro, secondo cui tutti i problemi che abbiamo oggi prima o poi si risolveranno senza catastrofi. Nel caso di Mombao l’idea di solarpunk si traduce anche in una ricerca particolare per quanto riguarda le luci da usare al concerto, i costumi, l’ideazione delle grafiche».
A questo punto Anselmo si illumina: «Dobbiamo parlarti di Pietro Porro!».
«Pietro Porro è un maestro del gesto calligrafico. È lui che realizzato la sigla Mombao in alfabeto sintetico che compare sulla copertina del disco. Nel suo atelier ha un’intero epistolario costruito con i linguaggi asemici, è davvero impressionante. Si tratta di segni che non hanno un significato preciso, non sono vere e proprie lettere, ma la dinamica e il gesto con cui sono tracciati racchiudono una grandissima consapevolezza e contemporaneamente la freschezza dell’improvvisazione».
Il nostro incontro si chiude con un racconto davvero impressionante su Pietro Porro. Damon e Anselmo mi raccontano che quando provano, oltre a bere il tè, il padre di Damon offre sempre della cotognata e mi spiega:
«Mio padre ha un melo cotogno in giardino e per questo Anselmo mi ha regalato il libro “La cotogna di Istanbul” di Paolo Rumiz. Durante il tour nei Balcani, poi, abbiamo scoperto la parola “sevdah” – da cui ha preso il titolo il disco e che significa “affondare nella malinconia fino a raggiungere uno stato di grazia e poesia” – che ho subito associato alla cotognata.Quando siamo andati da Pietro Porro, ci ha offerto un bicchiere di vino e – proprio come mio padre – una ciotolina con la cotognata. A quel punto già abbiamo pensato fosse una coincidenza incredibile, ma non è finita qui! Parlando del melo cotogno abbiamo citato il libro e, non ci crederai, non solo Porro conosceva molto bene il libro e il suo autore, ma addirittura Paolo Rumiz gli aveva dedicato delle righe del libro: “Ma il più pazzo fu Peter – cioè Pietro Porro – un libraio specialista dell’arte calligrafica con un senso sopraffino dell’estetica”».
Affascinata da questa storia, saluto i due, ringraziandoli per il momento indimenticabile che abbiamo condiviso. Ora penso di aver capito un po’ di più la loro musica: un mezzo tramite il quale rendono realtà la loro visione, in una performance che ci permette di specchiarci l’uno negli occhi dell’altro.