Mi capita ultimamente sempre più spesso di dialogare con promoter ed esponenti dell’industria musicale all’estero e constatare, purtroppo, che in questo paese è sempre più difficile fare musica. Per “fare musica” intendo dire far parte dell’industria nostrana o essere fieri delle produzioni underground ormai praticamente inesistenti. Asserendo che è impossibile fare musica in questo paese, nessuno ovviamente vuole tarpare le ali dei giovani sognatori che nel pieno dell’adolescenza pensano di poter cambiare o implementare il mondo grazie alla loro arte. Certo è che dall’esterosono vigili e c’è chi ha sempre almeno un occhio puntato verso i nuovi talenti provenienti dal bel paese. Ravvisare stupore nelle loro parole ogni qualvolta ascoltano la nostra musica underground è all’ordine del giorno. Il motivo? Beh, si chiedono come mai i nostri talenti non siano considerati, prodotti, lanciati… Perché non si punta sulla musica di qualità? Ma soprattutto si chiedono come mai la figura del musicista non sia riconosciuta a tutti gli effetti come una professione piuttosto che un dopolavoro/hobby per distrarsi dalla monotonia del quotidiano. Ma ragioniamoci su e non facciamo di tutta l’erba un fascio. Il quesito che fino a poco tempo fa mi tartassava generando nel mio credo musicale un inspiegabile paradosso, mi portava ad interrogarmi costantemente sul perché sia più facile, proficuo e soddisfacente presentarsi come musicisti oltrepassando i confini, piuttosto che tentare di farsi apprezzare in casa. Poi ovviamente col passare degli anni ho maturato determinate convinzioni; nonostante queste non abbiano trovato riscontri certi, vengono sicuramente avvalorate dall’esperienza, dalle conoscenze e soprattutto dal confrontarsi con chi come me si pone maniacalmente la domanda. Allargare questo discorso all’intero mondo della musica è facile, ma poi ci sono questioni più specifiche da affrontare.
Nel nostro caso parliamo della musica suonata, del live, del concerto, dell’esibizione, dello spettacolo… chiamatelo come vi pare, rimane sempre qualcosa di unico, imprescindibile, del quale un musicista non sa fare a meno. Non sa farne a meno al punto che è disposto a scendere a compromessi con chiunque gli sbarri la strada. Il musicista, pur di imbracciare lo strumento, attaccare un jack ed esprimersi, macina chilometri, spende i pochi soldi che gli sono rimasti, si prostituisce senza alcun compenso. Ma vuoi mettere che soddisfazione far sentire la tua musica? Forse stiamo trascendendo un attimo. Forse non dovrebbe esattamente andare così. Probabilmente, parlando io stesso da musicista, siamo noi che dobbiamo cambiare questo sistema e pretendere di essere tutelati da una società che alla base è marcia. È tanto difficile considerare in Italia la professione del musicista, quanto all’estero trovare dei professionisti del settore che non si definiscono come tali. Ma la colpa di chi è? La colpa è equamente suddivisa e ricade sui vari personaggi che non vanno a tutelare la professione. Basterebbe capire che continuando a scendere a compromessi con loro si fa il loro gioco e si arricchiscono sempre le stesse persone. Sempre di più. Poi c’è l’altra faccia della medaglia, quella dei locali. È sicuramente difficile far quadrare i conti a fine mese, nessuno lo mette in dubbio. È ancor più complicato mischiare le parole professione e passione. Ma non è impossibile, soprattutto da parte dei professionisti del settore, metterci l’impegno necessario affinché cambino le condizioni per entrambe le parti. Un evento è un investimento. L’investimento non è il cachet del musicista, l’investimento è credere in quello che si fa andando oltre il singolo evento. Non basta, nei rari casi in cui succede, pagare un musicista e contare i soldi a fine serata. Il mestiere del gestore del locale è rinnovarsi, è pubblicizzarci, ma è soprattutto credere nella musica che si propone al pubblico pagante. Allo stesso modo sentire un musicista che soddisfatto ti fa notare che al suo concerto c’erano cinquanta persone in platea. Ti dice che urlavano e si strappavano i capelli per lui. Quando poi scopri che le cinquanta persone che hanno seguito il concerto erano tutti strettissimi parenti e qualche amico intimo ti rendi conto che c’è qualcosa che non va.
Qualcosa di sbagliato alla base nel modo di concepire il voler far musica. Lo spettacolo è sempre stato un business, ma il business non è fatto di sole marionette. Quando il musicista sottostà agli interessi prettamente economici del gestore del locale, automaticamente si genera un circolo vizioso di partecipazioni agli eventi live dal quale è difficile uscirne. In termini kafkiani l’evento pubblico muta la sua natura diventando puramente una festa privata. In questo modo si vanno ad arricchire le tasche del proprietario del locale a discapito dello spettacolo. Ci si rende conto della gravità di questo processo solo quando si vanno a contare i cambi di gestione dei locali in un anno. Provare soddisfazione per un evento riuscito alla perfezione, vuol dire unire l’utile al dilettevole; dare un identità al proprio locale attraverso l’uso corretto della pubblicità e della promozione, oltre a restituire il corretto tornaconto economico, darà uno spessore maggiore in termini di qualità della programmazione e farà certamente crescere il nome del locale. Ma se alla base di tutto questo il musicista non fa valere le proprie ragioni, il castello di carte crolla e si ritorna nel caos apparente. Se poi andiamo a prendere dall’estero il peggio della musica suonata, dobbiamo far fronte allo spettacolare fenomeno del pay to play. Se fino a poco tempo era diffuso unicamente all’interno delle organizzazioni dei festival internazionali e dei tour di supporto, oggi è diventata pratica comune. Ora locali, ora direttori artistici, ora pseudo artisti “sulla cresta dell’onda”, i più vedono un ottimo margine di guadagno nei gruppi emergenti che purtroppo, a differenza di venti/trent’anni fa, non hanno più dietro le spalle le etichette che si fanno carico delle spese promozionali e di produzione. Quindi, vuoi far sentire la tua musica? È facilissimo… Paga! Perché ci guadagniamo tutti, e forse anche tu un giorno verrai notato da qualche pezzo grosso. Tu che aspiri ad entrare a far parte del giro delle major, delle produzioni miliardarie, dei trenta autori che a tavolino ti faranno far carriera con un brano che non ti appartiene minimamente ma piace tanto. In questo caso, dove c’è una domanda c’è un’offerta, e se va a mancare l’offerta conseguentemente cessa di esistere anche la domanda.
Purtroppo più ci sarà offerta e più la domanda crescerà e si diffonderà. Se ogni locale fornisse la giusta vetrina alla musica emergente collaborando attivamente con il musicista nella promozione attraverso i canali giusti, non esisterebbero escamotage e sotterfugi per sbancare il lunario o arricchirsi per i più. Con molta probabilità si porterebbe un po’ di cultura musicale prendendo spunto dalle cose che all’estero nella maggior parte dei casi funzionano.
Mad Curtis
ExitWell Magazine n° 1 (marzo/aprile 2013)