Abbiamo fatto due chiacchiere con Salamone, Cantautore siciliano che da un paio d’anni vive a Roma. La sua è la storia musicale di un vero cantautore indipendente, che ci ha regalato con il suo ultimo album Il Palliativo delle pillole del suo pensiero e del suo modo di vedere il mondo, la vita e la musica.
Quali sono i temi che sono alla base del songwriting de “Il Palliativo?
Il disco è una sorta di sintesi della mia produzione. Già nel 2012 avevo all’attivo molti brani. Proprio in quell’anno decisi di raccogliere il mio lavoro in una pre-produzione intitolata “Acqua, vino e santità”, composta da otto tracce che ho utilizzato come disco demo, una sorta di biglietto da visita per farmi conoscere (un paio di brani della demo, “Matto” e “Pagine gialle”, sono finiti nell’album). Di lì a poco feci dei live piuttosto importanti, come quello al Teatro Garibaldi Aperto e l’opening per Roy Paci nel 2013 al Pride Nazionale ai Cantieri Culturali alla Zisa, entrambi a Palermo, e nel 2014 aprii il live di Daniele Sepe al Memorial Peppino Impastato, a Cinisi.
In quel periodo decisi di trasferirmi a Roma per arricchire il mio percorso musicale; dopo l’incisione degli altri brani partii e ultimai il disco, uscito a maggio del 2015.
Il titolo riassume il concept alla base dell’album: smascherare, attraverso una sorta di satira immaginifica, concetti come la menzogna, il non ascolto, l’attitudine ad atteggiamenti poco ortodossi e gli scontri generazionali, tema trattato in “Ottogenova”. E’ un album di riso amaro, nel quale il palliativo rappresenta l’ipocrisia che regna dentro di noi. E’ un concentrato di cinismo e anarchia che lascia spazio ad una riflessione beffarda della realtà e all’esorcizzazione della stessa attraverso il sogno e l’arte.
Le strutture musicali sono molto dinamiche, con influenze che vanno dalla musica mediterranea alle sonorità d’oltre oceano; ho curato in maniera particolare gli arrangiamenti, inserendo fiati ed altri elementi che hanno contribuito in modo particolare a rendere la mia musica più godereccia e universale.
Ascoltando l’album si avverte una sorta di sposalizio simbolico tra la musica e la scrittura, uno strano ma simbiotico contrasto che, seppure mi identifica e che spesso cerco, a volte è semplicemente il frutto di un’ energia creativa che mi travolge e che contribuisce a vestire autonomamente i miei testi di un tessuto musicale che finisce per rispecchiare in modo naturale i paradossi e le allegorie del vissuto quotidiano che racconto nei brani.
Chi è, metaforicamente parlando, il Gatto di Giorgio, protagonista del primo singolo estratto dal tuo album?
In tutte le mie canzoni coesistono una parte narrativa esterna ed una parte più interna, più intima e autobiografica. Il “Gatto di Giorgio”, si, potrei essere io, ma potrebbe essere chiunque, malgrado lo sfacelo che ci circonda e che ci ha portato ad alcune situazioni gravi come la caduta di qualsivoglia tipo di scrupolo morale nei confronti dell’esistenza, decida di essere comandante della sua stessa vita, di gioirne, di godersela in modo assoluto, a dispetto degli ingabbiamenti del sistema e per il puro piacere di assaporare ogni attimo della sua esistenza; anche con comportamenti dissoluti o drastici – come fa Il gatto-, fino a sfidare la morte e a mettere fine alla sua stessa vita, schiacciato dal peso dei suoi errori; ma coerente con la sua volontà di essere padrone, in tutto e per tutto, di se stesso. Il videoclip del brano, infatti, finisce con la frase “La vita continua”, a significare che nonostante tutto, nonostante la religione, la morale severa, l’abbattimento del concetto di libertà e le storture del mondo, ognuno deve cercare di essere padrone della propria vita sino in fondo.
Il concetto è lo stesso di altri brani del disco come “Matto” o “Taverna n°6”, nella quale dico <<…ho centovent’anni e qualche pagina mancante ancora bianca…>>, a significare quanto nella vita non si smetta mai di crescere, e si può sempre decidere cosa fare di se stessi, navigando nella propria esperienza, nascendo e morendo più volte.
Che emozione è stata quella di venire a conoscenza della tua candidatura al Premio Tenco 2015 come “Miglior Opera Prima”?
Il giorno in cui venni a sapere della candidatura de “Il Palliativo” al premio Tenco 2015 ero in casa con la mia compagna. Stavo lavorando in cucina, pulivo del pesce; lei entusiasta continuava a ripetermi: <<…ma non sei felice? è una cosa bellissima!…>>. Io rimasi sereno e tranquillo, e continuavo a pulire i miei calamari. Ad un certo punto mi chiesi il perché della mia calma totale, e probabilmente la risposta più sensata che riesco a darmi è che ho visto la candidatura come una naturale conseguenza dovuta ad un lavoro che oramai porto avanti da circa vent’anni. Non è che non fossi felice, anzi tutt’altro, ma la musica ha sempre fatto parte della mia vita sin da bambino, quando mio padre me la insegnava e al contempo mi avvicinava all’amore per la letteratura. I miei maestri di scrittura sono stati Kafka, Neruda, Shakespeare, Kraus, Maupassant e cosi via…Ho dedicato alla scrittura e alla musica tutta la mia vita, senza mai pensare a quello che oggi definiamo “mainstream”, ma solo per la libertà di essere me stesso in tutto ciò che facevo e faccio, vivendo tutto questo come la cosa più naturale del mondo, come scendere dal letto la mattina. Mi sono esposto al grande pubblico solo qualche anno fa, dopo aver abbandonato un percorso parallelo alla musica che avevo intrapreso: una laurea in legge e alcune opportunità che ne derivavano. La musica mi ha sempre risucchiato totalmente e mi ha sempre reso padrone di me stesso e quindi ho deciso di farne la mia attività principale. Suonare e comporre è un lavoro, ma allo stesso tempo per me è un’attitudine, un qualcosa di intrinseco. Tutti i sacrifici e la passione sono premiati dal pubblico ai concerti, dai continui riconoscimenti che oramai arrivano spesso tramite il web e da situazioni gratificanti come questa candidatura al Tenco.
Come sta la musica indipendente italiana? Come vive la relazione e il contrasto con la musica che ci viene proposta dalle major?
Nel panorama delle major e parallelamente in quello (un po’ più confuso) della musica indipendente esistono delle dinamiche commerciali, di opportunità e di agganci più o meno importanti, che secondo me inficiano in qualche modo il senso stesso dell’aggettivo “indipendente”. Indipendente per me è chi non ha alcun laccio, alcun riferimento a cui dare conto o ragione, e quindi può far gustare al pubblico il suo percorso, il suo viaggio musicale nel modo più vero. In questo viaggio dell’artista confluiscono tante umanità, tante storie. Uno scrittore o un musicista indipendente è come una bandiera.
Nell’underground ormai c’è un po’ di tutto, anche soggetti che non rispecchiano per nulla l’essere indipendente, né il cantautorato come istanza musicale: il cantautore secondo me non è solo la definizione di chi scrive un testo e gli mette insieme una musica.
Il concetto di cantautore si rifà senza dubbio a gente come Dylan, De Andrè, Conte, Fossati…non alla star che vedi sempre in TV o che porta negli stadi orde di teen agers spesso accompagnate da un certo tipo di genitori.
Se hai una chitarra e scrivi canzoni -come fanno ormai i tanti personaggi e band della “grande scena”- fai pop, non fai il cantautore.
Allo stesso modo, nella musica indipendente ci sono soggetti che amano definirsi cantautori ma che starebbero meglio nei talent, e gente invece ad un livello molto alto.
Il cantautorato di oggi, nonostante sia uno sviluppo di quello “vecchio”, si è totalmente sganciato dal passato, e non è “legato” alle melodie, ai giri armonici e ai suoni di “ieri”.
Un cantautore moderno è difficile accostarlo al vecchio, secondo me l’identità della musica è cambiata parecchio; senti un mood diverso, nuovo, un modo di scrivere i pezzi e di arrangiarli che ti sorprende. Sono diversi i bisogni e i desideri, è diversa la vita…è diversa la musica e la sua espressione; inoltre molto spesso ci si autoproduce, e si può fare esattamente ciò che si ha nella testa, senza compromessi, senza dover rispettare precisi schemi o guardare alle necessità prettamente commerciali.
A proposito delle mode, dei posti giusti, delle nicchie un po’ radical, sinceramente io cerco di non frequentare gente ben schematizzata o alla moda o essere il presenzialista di professione. Penso ad altro e spesso la mia testa si concentra su cose totalmente agli antipodi rispetto a queste esigenze.
Considero un pregio per l’artista il fatto di essere curioso e di sentire, di cogliere se stesso e la gente nella sua diversità, di scoprire le sfaccettature della società e poterle raccontare, come spesso accade, nelle canzoni.
“Un Pescatore di Sorrisi” è l’ultimo singolo che hai proposto tra i brani de “Il Palliativo”. Che tipo di brano è?
Il secondo estratto dell’album, “Un Pescatore di Sorrisi”, è un brano che tende ad esorcizzare le dicotomie del tempo in cui viviamo, con l’occhio di un clown o di un Pulcinella.
In circa tre minuti tento di strappare un sorriso, forse malinconico a tratti, passando in rassegna degli spaccati di vissuto in maniera goliardica. Lo faccio con il mio linguaggio, quello di chi scrive, di chi racconta, di chi fotografa la realtà senza cliche’ o condizionamenti e strizzando l’occhio all’amore universale. Spesso, secondo me, si lascia un messaggio molto più incisivo nell’interlocutore attraverso una canzone piuttosto che attraverso altri strumenti che vengono definiti culturali, ed io credo di avere, con “Un Pescatore di Sorrisi”, svolto il mio compito da menestrello che cerca però di urlare qualcosa di più che una semplice canzone. Ma lascio ai lettori e al pubblico la chiave giusta con l’invito ad andare a scoprire il brano e il videoclip.
Il videoclip è frutto di un’idea fulminea che mi ha colto un giorno mentre camminavo per strada: ho visto accanto ad un bidone della spazzatura un ombrellino di quelli che solitamente si usano nei passeggini per riparare i bambini dal sole, ho guardato questo ombrellino e mi è venuta in mente una piccola sceneggiatura per il video che poi ho realizzato coinvolgendo un team di amici e professionisti.
Invito chi non lo conoscesse ancora ad andare a vederlo perché è frutto di uno di quei momenti di creatività che ti regala idee concrete e la necessità impellente di realizzarle.
Francesco Pepe