Nuovo disco, il sesto per Ottodix. Alessandro Zannier questa volta attinge anche dalle sue installazioni per la cover di questo nuovo lavoro che intitola “Micromega”. Una visione scientifica, surreale e poi concretamente attuale. C’è di tutto: un contest album che racconta l’uomo, la scimmia, ciò che siamo e ciò che eravamo descrivendoci dalla particella elementare, allargando l’occhio fino ad arrivare alla quotidianità dei social (I like it Micromega Boy) e allontanarsi ancora di più per arrivare al cosmo e a tutto l’universo conosciuto. Il viaggio di ritorno? Possibile e sicuramente doveroso, un pop digitale, a tratti terreno, in altri momenti in cerca di strutture poco “normali” ma sempre, sempre figlie di questa vita che conosciamo ormai da secoli. Il processo di scrittura di Ottodix non si è mai fermato alla ovvietà delle soluzioni. Siamo di fronte ad un visionario che vede la sua musica come probabilmente è capace di sentire le forme di ognuna delle sue sculture. Questo disco va assolutamente visto nel suo insieme…bellissime ricchezze dalla scena indie italiana.
L’istallazione che vediamo in copertina. Ce la racconti?
È una scimmia in polistirolo ad alta densità, scolpita e dipinta da blocco unico, incastrata in una parabola di alluminio a specchio dal diametro di 3 metri, divisa in 16 spicchi, con un faro-antenna puntato in faccia all’animale.
La scimmia, simbolo evidente dell’evoluzione dell’uomo, o meglio, della conoscenza umana del cosmo, richiama le cavie animali lanciate durante la Guerra Fredda nello spazio, destinate a perdersi in un viaggio senza ritorno.
La luce accecante della verità scientifica e razionale della fisica del cosmo, spaventa l’animale non ancora evoluto, che si chiude gli occhi come chi non vuol vedere e preferisce rimanere nel buio, a volte consolatorio, della superstizione o della religione.
È un’opera e un album dal sapore razionalista, Illuminista, non religioso, ma fortemente spirituale. Diciamo, “filosofico”.
Micromega, non a caso, è il titolo di un celebre racconto breve di Voltaire, che qui assume i connotati di un viaggio dall’ignoto del micro cosmo, attraverso il mondo a noi noto, per rituffarsi nell’ignoto del macro cosmo,
L’installazione è stata presentata a Pechino l’anno scorso per anticipare il progetto Micromega. Ho anche cantato in diretta tv una canzone in anteprima. Vi lascio immaginare lo share di una tv di Stato cinese!
Giochi spesso con le parole. Ziodiacantus, Multiverso, Filosofisica…che significano? E che significato c’è dietro questa scelta di giocare con le parole?
L’italiano è una lingua ricchissima e in ogni caso è la mia madre lingua, quindi ho il dovere di scrivere utilizzandone tutto il potenziale, sia fonetico, che musicale, che metaforico che poetico, per raggiungere un livello di espressione più alto.
Non so come si faccia ad accontentarsi di scrivere in una lingua che non è la tua, che non domini al meglio e che non ti permette quindi di sfiorare delle vette poetiche. Forse va bene per chi ha l’urgenza di riempire di un suono vocale “già noto” e sicuramente più cool, delle basi sonore. Dipende dagli obiettivi che uno ha. Viviamo in un’epoca in cui la parola sta assumendo sempre più il valore di contorno.
Zodiacantus è il nome della filastrocca che apre e chiude il brano. Ho voluto che avesse un nome dal rimando antico, come se fosse un mantra popolare contro la superstizione. Poi suona come calicantus, i fiori preferiti da mia madre. Un nome elegante che contiene la parola “cantus”. La cantilena dello zodiaco. Multiverso in realtà è una parola esistente da tempo e ipotizza la presenza di più universi compenetrati e contenuti nel bulk, ovvero l’iperspazio. Ci sono varie teorie in merito, collegate anche a quella delle stringhe che azzarderebbe in certi casi l’esistenza di fino a 11 dimensioni parallele e infiniti universi. Riguardo alla “filosofisica”, quella è farina del mio sacco e rappresenta bene il tipo di operazione artistica che ho fatto, che parte dalla scienza e dalla fisica per trascendere in una visione più filosofica e quindi più riconducibile anche ai ragionamenti dell’arte.
Ad oggi che (parafrasando il tuo singolo di lancio) noi esprimiamo concetti con un LIKE, cosa rispondi a chi ti dice (e penso che te l’avranno sempre detto) che la tua è musica difficile, filosofica, ermetica?
Eh… rispondo che io non ho inventato nulla di ché e che sto solo cercando di mantenere un certo status culturale, un livello di comunicazione, che certi artisti avevano fino a pochi anni fa. Delle mire legittime per chi fa arte, tutt’altro che ermetiche.
Vuoi dirmi davvero che le mie canzoni non hanno un messaggio chiaro? Oltre a essere chiaro è spiegato e ribadito dai comunicati stampa e anzi, gioca su una critica molto evidente a società, social, politica, religione, superstizione, disuguaglianze eccetera.
Semmai è un linguaggio che in musica non si usa (più) o è anomalo, ma non è ermetico. Semplicemente non c’è più l’abitudine a fare di questo tipo di musica un ascolto abituale, così come si compra un libro. I miei album sono fatti per essere riconsultati dopo anni. Sono a vari strati, ma le canzoni hanno una struttura da canzone classica strofa-ritornello. Inoltre spesso usano slogan o immagini figurate molto nette, in un linguaggio quasi pubblicitario. Sono gli argomenti a non essere usuali.
Io odio l’ermetismo, quello è un’altra cosa. È per gente che se la tira e che forse non ha nulla da dire o non lo sa comunicare. L’ermetismo in arte oggi è una scusa per nascondere dei vuoti. Questa lunga intervista è l’esempio più chiaro che non sono affatto ermetico e che di cose da dire ne ho.
Provengo da un ambiente di arti visive e quindi mi è naturale parlare per metafore e allegorie e scegliere soggetti di un certo tipo per parlare sotto traccia di altro, ma è dai greci che va avanti questo tipo di linguaggio, non è certo una cosa nuova. Diciamo piuttosto che l’asticella della fruizione media si è abbassata a livelli preoccupanti, così come la soglia di attenzione e il concetto di “complicato”. Faccio sempre l’esempio di un Battiato o un Paolo Conte o un Carmelo Bene. Che fine farebbero se uscissero oggi? Probabilmente sotto un ponte, inosservati, o peggio, tacciati di eccesso di sofisticazione. Non mi voglio paragonare a loro, ma al loro tipo di linguaggio, spero sia chiaro.
Parli del viaggio dal micro al mega. Ma parliamo invece del viaggio terreno che stiamo facendo noi oggi. Secondo te, in questo momenti di LIKE, dove siamo rivolti, dove ci stiamo dirigendo?
Non lo sappiamo, ma quel che è peggio, non abbiamo più la bussola di dove siamo rispetto al tutto. Non abbiamo più coordinate certe. Ecco il senso di Micromega. Ridare un senso della posizione e della misura all’uomo, ricordandosi del valore della sua grandezza in rapporto a quelle dell’infinitamente piccolo e infinitamente grande. È un’operazione di ridimensionamento in un periodo di confusione collettiva, dovuta al crollo dell’Occidente, così come ci era stato insegnato a scuola.
Il suono di Ottodix è molto riconoscibile. Direi che spesso nei tuoi dischi, in merito proprio al design sonoro, ci sono state pochissime rivoluzioni – se non sbaglio. Ma ho forte l’impressione che questo sia una tua firma artistica non è così?
È proprio così. Avendo pochi concorrenti in questo campo, posso tranquillamente dedicarmi al perfezionamento di un linguaggio mio senza l’ansia di dover cambiare ogni anno seguendo una moda sonora o di arrangiamento.
Vedi, io lavoro come i Depeche e quella scuola lì, sull’armonizzazione del suono, su canzoni fatte con armonie anche difficili, in cui non ti puoi rilassare a far ricerca sul suono di un basso in DO, perché dovrai cambiarlo di continuo assieme alle armonie e ai testi. Tutto è organico e si sviluppa spesso assieme alla parola.
Aggiornare le macchine un tantino ogni anno è sacrosanto, farsi sommergere da nuove strumentazioni per non avere il tempo di far ricerca con nulla è una trappola in cui non casco. La ricerca, quella vera, si fa con pochi mezzi che conosci come le tue tasche in tutti i loro difetti e pregi e con i quali adempi velocissimamente ormai, alle cose di base, potendo concentrarti sulla ricerca.
Chi si circonda di mille carabattole, software nuovi e muri modulari o altro, deve ristudiarsi sistemi nuovi sempre da zero e difficilmente arriverebbe a dominarne uno meglio del rappresentante di zona che glie lo ha venduto. Manca il tempo.
Preferisco spremere i miei mezzi fino all’osso, disco dopo disco, e aggiungere come ingrediente nuovo, di volta in volta, solo quello che il tema del disco richiede. È come dire che invece di comprarmi una scatola con 200 colori, uso solo e bene quei pochi che mi caratterizzano: se poi sto lavorando a un album atmosferico e ho assoluto bisogno di “quel” blu, esco e vado a comprarmi solo “quel” blu.
È una questione di scegliere cosa serve realmente.
Ho voglia di farti una domanda fantascientifica. Bellissima “Sinfonia di una galassia”. Prendendo spunto da questa, hai mai pensato di registrare per davvero “il suono dell’universo”?
Beh, intanto ti ringrazio, perché è il pezzo che più amo dell’album, scritto in una notte a Berlino, piena di ispirazione, in cui sono riuscito dopo anni a mettere su nastro un’idea che cullavo. Un pezzo da orchestra americana – hollywoodiana su struttura elettronica, in cui New York diventa la metafora della galassia e della nostra solitudine in mezzo a una società-città immensa.
L’introduzione sonora siderale, quella “polvere di stelle” iniziale e finale è opera di Flavio Ferri e fa da contrappunto ai miei archi pieni di pathos.
Si, l’utilizzo (più che la registrazione) dei suoni delle frequenze dei pianeti e del cosmo, quell’inquietante rumore che arriva dall’infinito, registrato dai telescopi e dagli osservatori, è in programma: vorrei utilizzarla come elemento extra nella versione “ambiziosa” degli spettacoli legati al live di Micromega. Ci proverò.
Belle domande, grazie!