– di Giacomo Daneluzzo –
Questo concetto della necessità di evadere, questa istanza di evasione, è un po’ una caratteristica della psichedelia, storicamente, è tipica di questo genere. Che sia con l’uso di droghe, con un’apertura a un’esperienza di sguardo sul mondo diverso, è abbastanza alla base dell’esperienza della musica psischedelica, o sbaglio?
In effetti sì. Infatti come didascalia su Instagram, come definizione del genere che ci siamo attribuiti abbiamo utilizzato psichedelia urbana, che si può tradurre come una fuga nei recessi dell’interiorità, cioè, un viaggio interiore nell’impossibilità di farne uno esteriore. Confinati nelle periferie e nel traffico viaggiamo con l’immaginazione, il senso è un po’ quello.
Mi sembra anche molto attuale, essendo appena usciti da un anno in cui siamo stati confinati per buona parte del tempo. Probabilmente questa concezione è molto adatta a questo periodo storico.
Infatti, è molto calzante.
Mi hai detto che l’ultima tranche di brani vira, rispetto all’EP, ed è una cosa che si sente. Come si contraddistingue questo nuovo capitolo, oltre al fatto che c’è “più Torino”, come mi hai detto?
Diciamo che se la precedente tranche di brani era molto divertente da suonare, questa nuova trache è molto divertente da cantare, una forma-canzone più standard, italiana e internazionale. Una forma-canzone “strofa-ritornello-strofa-ritornello”. Nell’EP erano più delle suite strumentali con ogni tanto il cantato, nascevano tutte come strumentali e potevamo tenerle anche così, poi abbiamo deciso di metterci la voce. Queste canzoni invece sono nate come canzoni chitarra e voce, poi arrangiate.
Come mai la scelta di virare da una cosa che parte come strumentale e poi si aggiunge qualcosa di lirico a, invece, canzoni costruite in modo più cantautorale, da chitarra e voce?
Mah, fa parte di un percorso. Ci siamo conosciuti nel 2015, abbiamo iniziato a suonare. Ci siamo conosciuti in sala, suonare insieme è come dialogare, è comunicare. L’abbiamo fatto per mesi e il risultato sono stati questi brani. È stata proprio una necessità, quella di arrivare a capire come funzionavamo insieme musicalmente, e il risultato è stato il primo disco. Avevamo capito come girava, in che direzioni potevamo andare, quali tasti potevamo toccare, quali erano i nostri limiti e i nostri punti di forza. Avevamo esaurito quel discorso dello strumentale, a dirti la verità ci siamo anche un po’ stancati di suonare e basta, abbiamo trovato anche il coraggio e la faccia tosta di cantare delle cose più intime, più personali, più legate alla quotidianità – perché prima ci celavamo dietro a questi testi lontani, spaziali, astronomici. Molto Kubrick, 2001 – Odissea nello spazio. Ci nascondevamo dietro a questi contenuti un po’ per timidezza, ecco. Perché nessuno di noi aveva mai cantato in progetti in italiano ed eravamo insicuri: “Cantiamo in italiano ma parliamo di cose lontane”, per nasconderci. Trovando un po’ di coraggio abbiamo pensato di parlare un po’ più dei fatti nostri e di cose più vicine alla gente, adesso cha abbiamo capito che i mezzi per farlo ce li abbiamo. È stato un percorso evolutivo. Vediamo in che direzione andremo, d’ora in avanti.
Questi testi, soprattutto nell’EP, ma anche nei brani nuovi, usano delle immagini, delle descrizioni e delle storie oniriche, surreali. Questa cosa viene riportata anche nel bellissimo videoclip de “I film sui samurai”, riportandola anche in immagini. Questo tipo di immagini, questo tipo di narrazione onirica, sognante, che c’è nei vostri testi ma anche nei vostri sound, a livello magari più intuitivo, da dove ha origine? Da dove nascono queste cose fuori dall’ordinario e dall’esperienza comune che si ha?
Credo che sia proprio quell’esigenza che dicevamo prima. La necessità intrinseca, la speranza di ognuno di noi che la realtà non finisca dove la vediamo finire, che ci sia qualcosa di più profondo dietro la materialità spicciola, qualcosa di più interessante, qualcosa di altro.
Quindi artisticamente è come se si oscillasse tra il materialismo e la speranza che la realtà non sia così materialista.
Esatto, esatto, che ci sia qualcosa di magico, di non detto, da scoprire, qualcosa di legato al confine di un’altra dimensione di anime e fantasmi, quella dimensione di energia che riempie tutto lo spazio che immaginiamo trasparente, ma magari ci sono delle connessioni tra oggetti, tra persone, tra eventi… Qualcosa di sincronico e di magico, che a volte magari intuiamo, però tendenzialmente presi dal tran tran del quotidiano ci sfugge.
Sono contento di quest’intervista perché mi sembra che mi ha fatto capire qualcosa in più su questo tipo di musica, sulla psichedelia, cioè quest’idea della speranza di qualcosa di oltre.
Sono contento che ti stia facendo piacere.
Ho letto che tra i riferimenti musicali di “Effetto notte” ci sono Robert Smith e Tame Impala e sono abbastanza evidenti. Ci sono delle figure ispiratrici anche a livello testuale?
Dovrei pensare a che cosa ascoltavo. Niente di preciso, niente di ispiratore, ma più che altro l’ascolto di artisti molto disinibiti nell’espressione di contenuti dopo un po’ ci ha fatto capire che a livello testuale non c’è niente di male ad osare. Ti parlo di qualcosa che va da Giovanni Truppi ad Achille Lauro, passando per Umberto Maria Giardini.
Grazie mille, Davide! Buona serata e in bocca al lupo con questa nuova fase del vostro percorso.
Ti ringrazio tanto per quest’intervista. È sempre bene ripassare certi mantra, certe idee. Ha fatto piacere anche a me. Un abbraccio.