Penso che raramente si trovi il tempo di vivere in silenzio. E per quelli come noi che si abita le strade di provincia, il silenzio, quasi diviene una condanna di luce, di spazio, di possibilità. E poi ci sono i vermi, gli aborigeni, i senza fissa costanza, quelli che hanno l’ossessione del poco e del semplice, attrezzati di tutto punto per dribblare problemi e scocciature. La quiete deve restare sovrana, Siamo noi quelli che divoriamo le sospensioni in cemento di palazzi e palazzinari che fanno il verso ai grattaceli ma poi sono nani, giganti solo a certe ore del giorno. A quelli come noi non interessa troppo la luce, dievo, segno di vita e di caos termico e metropolitano, fatta di gente che deve correre per agguantarsi una fetta di torta. A noi basta che la locanda apra puntuale e non faccia sfoggio di nuove facce a deturpare equilibri. A noi basta un velo di nebbia ad accarezzare la statale, qualche montagna a contorno che blocchi il senso di vuoto… le sirene di lontano svegliano le curiosità ma tutto tace poi d’improvviso, torna dentro le alcove e porta con se il sesso, l’amore, le religioni e pochissime altre cose ugualmente concrete. Ogni cosa è un corpo estraneo che non va rimosso: troppa fatica. Al più va contemplato con la speranza che passi… tutti passano da qui prima o poi.
Sospende il suono Alessandro Mogni dal moniker disteso su vellutate di carta antica, carta di pane, carta di fornaio riciclata per la qualsiasi. Si fa chiamare A Quiet Guy che sembra un manifesto esistenziale più che un proposito di future politiche sociali. Questo esordio di suoni rarefatti, di chitarre che mascherano l’identità e si contorcono dentro distorsioni e riverberi dal sapore spirituale, con pochi conversioni al ritmo se non per imprimere tagli ad un manto che copre ogni intenzione di rivoluzione. “Copri estranei” è un primo lavoro che non si smette di ascoltare tanto facilmente se amate il lento incedere del tempo. “Corpi estranei” inchioda il mio passo, fermo rimango, sono io nella contemplazione dentro l’ennesima notte di questa provincia, quando anche le suole in gomma rimbombano tra i balconi di piante della vecchia che vive al primo piano. Dentro queste tracce c’è la sospensione post-atomica, ci sono le macerie e la polvere di una distruzione, c’è l’idea della ricostruzione… ma solo l’idea ci trovi, non ci sono movimenti ostinati, non ci sono intenzioni vive ed energie rinnovabili. Non ci sono rinascite. Forse qualche guizzo. Non altro. È un disco strumentale fermo, fluttuante, indifferente alla luce. Questa copertina di mani di sangue o di un rosso per altre ragioni, si intravedono dentro frattali che sembrano increspature di vernici dai colori tenui e pastelli. Questa copertina, dicevo, quasi non somiglia alle scale di grigio che più mi affascinano di questo suono. Non è un ascolto letterale, non è un ascolto di estetica per riempire cose e momenti. È un disco di percezioni, di un sentire intimo e privato. Non cerca nessuna didattica, non serve spiegarlo, non serve fotografarne la forma. Serva ascoltare. Di sicuro, per voi altri che alla provincia non avete affidato nulla, chissà se questo disco arriverà dentro con una forma ugualmente affascinante. Prendete una stanza sulla statale alle spalle di una zona industriale. Per la luce affidatevi a quei lampioni non ancora convertiti alle ormai vetuste tecnologie a Led. La nebbia non deve mancare, mi raccomando. Ottimo lavoro sig. Mogni…