Calcutta torna dopo 5 anni con “Relax”, fuori dall’hype e da una discografia malata
– di Riccardo De Stefano –
(preparatevi perché sarà un articolo molto lungo)
(so che è difficile leggere ormai, ma proviamo tutti a fare uno sforzo, ok?)
Calcutta e lo Zeitgeist dei Millennial
Per quanto possa essere surreale a dirsi, ma “Mainstream” di Calcutta è stato lo zeitgeist musicale della mia generazione. Lo spartiacque di un mondo che, da piccolo e antico che era nel 2015, si è ritrovato contemporaneo e improvvisamente adulto nel giro di pochi anni.
Così alla stessa maniera “Evergreen”, uscito nel 2018, terzo album di Calcutta – anche se per tutti suona come il secondo – era la cartina tornasole di quello che stava accadendo nel circuito musicale. Un banale cash-in per sbijettare facile o invece un cambio di rotta?
Forse né l’uno né l’altro, a metà tra l’hit-making (“Pesto”, “Orgasmo”, “Paracetamolo” per dire) e la rivendicazione autoriale (“Rai”, “Nuda nudissima”), una linea tracciata sulla sabbia per lasciarci decidere in quale team schierarci, se con il Calcutta strappaurli stonati allo stadio o fieri di quel qualcosa di più profondo che fino a quel momento era lasciato nelle potenzialità dei tasti bianchi del pianoforte.
Ma poi hanno arrestato il mondo.
E che buffo a pensarci, ormai il COVID e il lockdown sembrano fantasmi di una storia passata, forse inventata e mai esistita, un Babau con cui spaventare i piccoli figli che qualcuno di noi ha avuto nel frattempo. “Se non stai attento viene il virus cattivo a chiuderti in casa!”.
E gli altri fantasmi, quelli reali, i morti e le disgrazie disperate che quel periodo oscuro ha lasciato, sono stati riposti nei ricordi di Facebook, negli archivi delle storie Instagram, pronti per essere celebrati solo nelle ricorrenze speciali, negli anniversari.
Ora che il lockdown e quel periodo orrendo sembrano cancellati dalla Storia recente, ci rimane di nuovo il cinismo di un mondo che è andato avanti, schiacciando l’acceleratore più forte che poteva per lasciarsi alle spalle tutto, dietro la curva del passato.
Nella musica, questo ha comportato la rapida trasformazione del pubblico: noi millennial siamo improvvisamente diventati adulti e irrilevanti, mentre i piccoletti della Generazione Z sono diventati grandi abbastanza da influenzare il mercato (ma quando è successo? Io sono ancora giovane!).
Quella generazione che negli anni ‘10 è uscita dai piccoli club, che ha fatto la famigerata gavetta e si era opposta fieramente alla radiofonia e alla televisione è stata spazzata via per finire inglobata dal Grande Gigante Gentile della discografia e, come i maiali alla fine di un bel libro di Orwell, risultare identica a quelli a cui si era ribellata.
Il risultato è stata la totale sparizione delle scene musicali – colpa anche la chiusura multipla dei locali e dei live club – l’asservimento di stampa, etichette e artisti a quelle uniche dinamiche commerciali da perseguire (devi fare il singolo così sennò non funziona, devi diventare virale su TikTok sennò proviamo X Factor, altrimenti come ci vai a Sanremo?) e un profluvio nauseante di pop di bassissima qualità e di artistucoli capaci di durare uno o due singoli prima di sparire nell’anonimato.
Ecco che allora 5 anni di attesa per un disco oggi ci sembrano fantascienza, follia pura. Ma come ti permetti di non pubblicare un singolo ogni 3 mesi? E l’algoritmo che dice?
Eppure, Calcutta, che di drammi umani in questi anni ne ha avuti – e su cui soprassediamo per rispetto – si prende tutto il tempo per tornare. Sfuggendo dalle regole di un mercato nauseante che prende, ingoia tutto e vomita al pubblico in continuazione musica brutta fatta da persone senza talento.
Calcutta bypassa le regole di questo mercato perché sa che non ne ha bisogno. Che quell’esperienza – sicuramente fortunata – che è stata chiamata “indie” è nata ed esplosa proprio perché si proponeva di essere diversa dal resto, e non per inseguire i trend del momento. E chissà quante volte le etichette indipendenti pensano a quell’Impero potenziale che hanno dilapidato puntando sul cavallo sbagliato.
Chi vuol essere una popstar?
E in fondo 5 anni sono tanti davvero. Chissà che ne è stato di quel Calcutta? Chissà cosa significa prendersi questo tempo, magari per pensare, riflettere su quello che è stato, immaginarsi cosa sarà il futuro e magari decidere se sparire per sempre nell’ombra della musica, come l’amico Niccolò ha fatto mettendo a nanna I Cani, o forse rischiare di essere fagocitato dalla Macchina e diventare la caricatura di sé stesso, come l’altro amico Tommaso ha dimostrato negli ultimi discutibili anni di carriera.
“Relax” alla fine esce il 20 ottobre, dopo qualche stunt pubblicitario in pieno stile Bomba Dischi x Calcutta (come l’esibizione dietro lo spioncino), senza singoli pubblicati e spalmati nel corso dell’anno, né guerrilla marketing, né forse la stessa attenzione che avrebbe avuto 5 anni fa.
E la cosa più bella è che Calcutta ha messo al centro di tutto l’album. Proprio il formato “album”, quello odiato dalla discografia di oggi (troppo costoso, mero feticcio, chi lo ascolta, chi lo compra, chi ha tempo), diventa l’unica forma reale con cui approcciare il nuovo materiale di Calcutta. Scoprirlo canzone per canzone, sentire dove ci conduce in questo percorso che fin da subito ci dice che l’hype può morire male e che tra l’essere l’eroe del pop o il cantautore da storicizzare, Edoardo preferisce l’ultima.
Nessun singolone (per fortuna)
Prendete Coro. Fatela sentire a un adolescente qualsiasi, costringetelo sulla sedia a stare zitto e buono per qualche minuto. Provate a vedere la sua reazione: io me la immagino divertita, stranita, spaesata. Iniziare un album con una canzone a cappella, come un ipotetico coro degli alpini, con questa melodia classica da tradizione montanara, è una rivendicazione precisa di chi e cosa vuole dirci Calcutta.
E il brano non può che parlare di disillusione, di musica, di disperazione latente e di voglia di fuggire via. Forse sarebbe un bene se non ci fossero i soldi né Sanremo, forse torneremmo a parlare di qualcosa.
“Relax” rifiuta i singoloni, le hit strappacapelli alla Paracetamolo o Pesto, ma che sia per scelta o per incapacità di bissare quei brani non ci interessa. Perché stavolta più che mai Edoardo parla a sé stesso e noi, il pubblico, siamo solo materiale di scarto di questo processo.
Tra Battisti e la disco
La produzione di Giorgio Poi chiaramente ci porta in un mondo diverso dall’intimismo pastelloso di “Mainstream”, vicino a quel sound a tratti gotico di “Evergreen”, scivolando qui e là in un certo manierismo stilistico, ma senza risultare mai grottesco.
C’è infatti molto Battisti, di quello ormai preso a stilema di “qualità” e “coraggio”, cioè quello di “Anima Latina”: due dei pezzi migliori dell’album, Giro con te e Allegria… sono evidentemente sottoprodotti di quell’ascolto.
Ma non solo, c’è quella sorta di italodisco fine anni ‘70 che spilla dai pori di brani come Loneliness e Ghiaccioli, e non a caso sono due dei brani meno interessanti.
Ma si sente Giorgio Poi soprattutto nella proto-hit di “Relax”, cioè 2minuti, unico brano dove realmente Calcutta prova a essere piacione nel suo ritornello scanzonato e in crescendo, capace per quei 2 minuti di farci scordare della profonda disperazione che attraversa il disco.
Siate sinceri
La differenza sostanziale in questo Calcutta, rispetto l’eroe dei disagiati millennial, è la nuova sincerità disarmante di Edoardo. Non che Calcutta ci abbia mai mentito, ma quel disagismo di maniera dell’indie era sempre sfumato, sempre tenue, una malinconia da fuorisede lontani da casa che non si capiva mai realmente a che si riferisse. Insomma, l’espressione dei vent’anni, quando pensi che qualcosa non vada come deve andare, ma non sai cosa e quindi sei a disagio con te stesso, il mondo, il sesso e l’amore, l’Università e le piccole cosine inutili del quotidiano.
Tutti falliti
Le canzoni più forti, quelle che finalmente ti toccano nello stomaco e ti fanno star male, sono quelle dove Edoardo getta via qualsiasi maschera da popstar e ci canta quella disperazione vuota che arriva quando le lacrime sono finite.
Tutti si apre con gli accordi ovattati del piano che ci ricorda quanto piacciano ad Edo gli accordi di settima, prima di sbatterci in faccia quella verità da trentenni stanchi che tutti sentiamo, quella paura che ti fischia nelle orecchie appena prima di dormire.
Se l’indie è stata la narrazione della paura di fallire, “Relax” – e Tutti ce lo dice direttamente – è l’ammettere che oggi, quando i sogni sono diventati qualcos’altro, sembriamo davvero tutti falliti.
E se Intermezzo3 per la prima volta ci mostra uno strumentale degno di essere chiamato con questo nome – per quanto altrettanto irrilevante quanto i suoi predecessori – SSD riparte dal pianoforte, partendo consolante per poi sprofondare in un dolore quanto mai prima d’ora sincero e brutale, che facendo perno sulla tragedia personale ci dona l’emozione più grande dell’album. Un frullato emotivo che anche sonicamente è l’episodio centrale, il momento art rock di “Relax”, ponte tra il disco precedente e questo.
D’altronde si può dire tutto a Calcutta, ma non che non abbia un talento speciale per le ballate. Per cui, Preoccuparmi riassume tutto il malessere dell’album nella sua cadenza da lento, uno di quei brani da ballare al Prom di Fine Anno se fossimo in una serie adolescenziale Netflix. E ignorassimo ovviamente la profonda disperazione che attraversa il testo.
Tutti invecchiati
No, in “Relax” Calcutta non è più un ventenne imbronciato. È suo malgrado un uomo adulto, che di tragedie umane ne ha vissute e non può dimenticarle, né fingere che non siano successe. Perché la roccia rimane roccia, siamo d’accordo, ma a fingere che l’acqua non ci scavi finiamo spezzati a metà prima di accorgerci che è troppo tardi.
“Relax” è un album denso. Dove si può sentire la frustrazione, il dolore, la disperazione reale – e non solo accennata come prima – della vita che è arrivata e ti ha travolto. Perché anche se non vuoi, anche se provi a vivere in questa post-adolescenza continuativa e sembri molto più giovane, in realtà il Tempo arriva per tutti e non si torna indietro. Le scelte che hai fatto le hai fatte, e non si può tornare indietro a cambiarle.
Ed ecco allora che anche l’ascoltatore medio di Calcutta è cambiato, è invecchiato, e si ritrova in questo mondo molto più povero e vuoto – anche se pieno di cose sempre nuove – e deve trovare un appiglio a cui aggrapparsi.
Tutti delusi
Forse per questo il primo sentimento che è emerso dalla pubblicazione dell’album è stato quello di una certa delusione, almeno in una vaga fascia di ascoltatori. Perché le aspettative sull’album non potevano che essere altissime e le speranze di trovarci l’ennesimo ritornellone non dovevano rimanere inattese.
Ma forse anche per questo “Relax” rappresenta perfettamente la mia generazione, quella dei Millennial: perché per noi – e anche per chi è venuto dopo ormai – tutto si divide in “bomba zio, ci volo, capolavoro totale” o “madonna che schifo, orribile, patetico”, senza nessuna capacità di creare zone grigie, quelle che poi rendono la vita vera.
Perché siamo una generazione – e quindi un pubblico – che è solo capace di avere aspettative altissime: la nostra vita sarebbe stata meglio di quella dei nostri genitori perché ce lo avevano promesso, perché ho studiato in Università, perché so fare tante cose e mi piace usare il termine “multipotenziale”, e tutta una serie di stupidaggini simili. Il risultato è stata questa enorme frustrazione, questa disillusione totale per cui oggi ci sentiamo davvero “tutti falliti”. Calcutta ci ha cantato di questo senza costringerci a urlare un ritornellone.
Anzi, vorrei essere presente quando al prossimo palazzetto o stadio canteremo insieme, tutti, tra il pubblico, quel “Tutti falliti” che così efficacemente riassume il disco.
Mentre andiamo via
“Relax” non è un disco di speranza. Non ci dice che il futuro sarà migliore di quello che ci aspettiamo. È una sigaretta accesa e passataci a fine serata, mentre torniamo a casa dopo l’ennesima serata dove abbiamo finto di divertirci. Non ci dice bugie, non ci parla di soldi, successo, bitch né di quanto insieme potremo farcela. È sbatterci in faccia qualcosa come solo gli amici possono fare, senza cattiveria e senza violenza.
E domani? Domani sarà uguale, che importa. Almeno per oggi abbiamo avuto qualcuno che ci ha ascoltato.