Dal “Delta del Tevere” fin dentro le pendici del pop italiano passando per le smaliziate tecniche di registrazione casalinga che tanto devono all’ingegno e alla carenza di soluzioni comode. E tutto questo è l’ingrediente portante del ritorno in scena di Luca Bocchetti, cantautore romano di una romanità celebrata con meno ironia del solito dentro un disco casalingo, blues e digitale al tempo stesso: “Vado mo’?” è la sintesi di tutto, del suo suono, del suo modo di raccontare la vita e dei suoi personaggi, reali o fantastici che siano. Roma bella, Roma capoccia, Roma del Tevere che non ha cotone ma ha periferie buone degne di grande blues.
Il blues impera. Si torna indietro nel tempo. E questo disco, anche nelle fotografie sociali che propone, deve molto al passato… persino la figura di un portinaio, un topo di appartamento… non c’è il futuro in questo disco?
Ho la sensazione che il futuro dipenda da come uno guarda al passato. Non si può tornare indietro come Marty McFly, ma si può cambiare la percezione di quello che è già stato. Passato, presente e futuro coesistono e si influenzano reciprocamente; perciò, per dire qualcosa di “nuovo”, si deve avere piena coscienza della tradizione. E in ogni caso, dove abito io, si vive molto nel presente, che è ancora fatto di portinai e topi d’appartamento.
E restando sul tema, hai scelto di macchiare il blues con suoni digitali. Necessità o scelta artistica?
Scelta. Quando ho deciso di realizzare questo EP mi sono imposto un percorso obbligato, tipo “Giochi senza frontiere” o “Mai dire Banzai”. Non avrei usato niente che non potessi registrare nella mia camera da letto. Anziché impiegare synth e drum-machine, avrei potuto tranquillamente coinvolgere amici musicisti e incidere altrove le loro parti di piano, batteria e archi; non ero costretto a fare quello che ho fatto, come del resto non lo erano i concorrenti di “Mai dire Banzai”.
Pensi sia un risultato convincente secondo i tuoi piani? Insomma, col senno di poi somiglia a quello che pensavi?
Non stavo perseguendo una forma precisa, ma un modo di fare le cose, e il risultato ha una sua identità. Mi sembra che l’EP dica quello che doveva dire, nel modo in cui so dirlo, e di questo devo ringraziare anche il missaggio e il mastering del mio amico fraterno Lucio Vaccaro, già con me ne I Santi Bevitori, l’unico che sappia come interpretare il panico che ho in testa e nelle orecchie.
La romanità: per te cosa significa? Che valore ha, visto che quasi tutto il disco è cantato in dialetto…
Volevo che “Vado mo’?” fosse un lavoro onesto, perciò doveva esserlo anche la mia lingua. Quando sono stanco, molto triste, molto arrabbiato, al di fuori di costrizioni formali, senza filtro ed esposto, è così che mi esprimo. Ed è così che si parla dove vivo, nei posti che cito nelle canzoni. Ma, in ogni caso, quello romano – almeno oggi – è un accento, più che un dialetto, e credo che chiunque in Italia lo comprenda senza grossi problemi.
A chiudere un video ufficiale? A quando?
Ho rilasciato videoclip in passato, da solo e con I Santi Bevitori, ma uno dovrebbe farlo solo se serve a raccontare qualcosa, non perché si debba. Stavolta non volevo farlo…eppure, quasi certamente succederà. E pure a breve.