Mi affascina molto la chiusa di questa intervista. Il presente è sopravvalutato e il passato è l’unica prospettiva. Bir Tawil è una terra di nessuno e non sempre ci si deve passare. Di sicuro nessuno la vuole. Metafora questa di un suono e di una scrittura e che non serve portare cultura e sfoggiare ricerca per meritarsi indifferenza… serve molto meno oramai… dentro questo tempo apocalittico in cui tutto è conforme alle regole. Dunque un disco come “In Between” salva la vita dall’appiattimento restituendo l’ennesimo appiglio verso frontiere altre, direzioni altre… altri stimoli che non siano conformi alle regole. “In Between” è l’opera dei Bir Tawill, firmata dal duo Carlo H. Natoli (Erri, Gentless3, Skrunch, Blessed Child Opera etc.) e Dario De Filippo (Aiora, Le zouave Jacob, Collectif La Boheme, Guappecarto’, Skrunch etc.). E poi le featuring di Cesare Basile, Hafid Bidari (Bania, Orchestre National de Barbès,), Julie Mélina Macaire-Ettabaâ (Làk) e Baptiste Bouquin (Surnatural Orchestra). “In Between” ha l’unica ragione dell’esistenza. Disco di non conformismo e di minoritarie ragioni ugualmente concrete. Anzi libere. Anzi reali. Dalla Sicilia passando per l’Africa, ascoltandolo, si arriva anche dentro la grande metropoli europea.
Prendiamola come bandiera del tutto. La società dello spettacolo. Oggi forse più di ieri esiste una discriminazione culturale, di spettacolo. Siamo ancora nei tempi in cui la cultura fa paura e va repressa oppure ormai siamo talmente omologati che è abitudinario ogni cosa… ogni cosa ormai è ridotto a rumore di fondo?
Siamo ancora all’adagio della cultura pericolosa (nel migliore dei casi) o inutile (nel peggiore), chiaramente. Ovviamente se stiamo parlando fuori dai soliti zibaldoni televisivi nazional popolari (in campo musicale), perché i carrozzoni vecchi e nuovi (Sanremo vs concerto e del primo maggio) sono salvi grazie alla cretineria intrinseca delle innocue proposte “per farci divertire tanto”. Per farti un esempio dell’inutilità di questi casi specifici nella bilancia culturale e sociale di un paese, il primo anno di covid, nulla era cambiato con gli streaming sanremesi, e mentre leggevamo di amici fonici che dovevano abbandonare una vita di training e professione (o peggio di chi si è suicidato per i debiti) a Sanremo i nuovi noti non hanno speso un minuto del loro prezioso tempo per fare un gesto di riconoscenza o vicinanza alle categorie dei lavoratori dello spettacolo, che altro dovevano fare d’altronde? Non partecipare? Magari. L’Italia soprattutto, perché Inghilterra e Francia sono leggermente meglio, ma il trend è quello, producono stagnazione culturale come principale prodotto. E noia.
La narrazione qui passa anche (forse soprattutto) dai suoni, vero? In che modo i suoni danno battaglia alle omologazioni e sostegno ai “non allineati”? Se così posso dire…
Perché sono suoni di frontiere, varie. Tutte quelle che abbiamo vissuto e attraversato, e quelle che vorremo non esistessero. È un diario sentimentale di fuga. E di ribellione.
Dall’Africa alle terre del nord. Eppure il disco fisicamente nasce tra Londra e la Francia che sono tutt’altro che terre di confine. In qualche modo loro, queste latitudini commerciali e industriali, hanno contaminato il disco stesso?
Ci spiace contraddirti, ma anche escludendo brexit che ha aperto nuove separazioni e confini, Inghilterra e Francia sono proprio l’una il confine dell’altra, con la Manica in mezzo, e non solo fisicamente. E poi entrambe hanno un grado elevatissimo di polarizzazione del dibattito su conflitti e minoranze per così dire interne (pensa al caso Irlanda, con un confine scritto nel sangue che letteralmente spacca in due una città manco ci fosse ancora la guerra fredda). Sono tutti conflitti che tormentano le nostre vite, e però paradossalmente le nutrono. Almeno culturalmente. Poi ci sarebbero i rispettivi dibattiti post-colonialisti (che se aspettiamo per un equivalente in Italia stiamo freschi) che sono grandi contenitori si di orrore ma anche di una nuova cultura globale.
Parliamo di collaborazione che anche qui il piatto si fa ricco. Artisti di confine anche loro? Come sono nate? Ma soprattutto… nate sotto una stella estetica e di concetto o con la voglia e l’amore per il progetto che stava nascendo?
Avevamo voglia di mettere in gioco la musica con veri e propri attentati da parte di musicisti che stimiamo, esterni alla nostra esperienza quasi simbiotica (anche se decisamente elettronica). Abbiamo trovato dei complici e dei compagni, con cui stiamo già pensando di mettere in piedi nuove avventure.
Eppure alla fine anche “In Between” rispetta delle regole. Mi ha sempre affascinato questa piccola contraddizione. Rispettare le regole per poterle denunciare, sempre se mi si concede la sintesi. Come la spiegate altrimenti?
È la solita storia di prendere un sistema e spremerci fuori quello che ti serve, volente o nolente il sistema. Non siamo pirati alla fine, perlomeno per ora, ma non escluderei…
Da banditi, si guarda volitivi verso l’orizzonte per superare “la presente assenza di futuro”. Bellissima questa frase. Credo sia davvero un’icona dell’intero disco. Secondo voi aver certo il futuro è al tempo stesso aver certa la “morte” di senso di ogni viaggio?bir tawill
dischi del minollo
Il futuro è obsoleto, diceva Canecapovolto secoli (digitali) fa’. Noi per colmare la misura ci aggiungiamo che il presente è sopravvalutato e il passato è l’unica prospettiva.