– di Giuditta Granatelli –
Federico Fabi è un giovane cantautore romano, che a Spinaceto è nato e vuole rimanere. Ha esordito nel 2017 con Io e me x sempre, album registrato in cantina, solo chitarra e voce. Esplorando arrangiamenti più complessi senza però perdere il suo riferimento più autentico, il mondo del cantautorato, è andato avanti con le sue pubblicazioni fino a C’eravamo quasi, uscito quest’anno. Artista originale e di talento, è ambizioso nella sua semplicità. Gli ho fatto qualche domanda su Skype per approfondire il suo percorso musicale.
Mi scontro con la definizione che danno ai tuoi brani, che secondo me non sono proprio indie. Tu invece? Ti ci ritrovi oppure no? Cos’è per te l’indie e come definiresti invece la tua musica?
Sì, purtroppo dicono questa cosa. Se vogliamo essere nazisti della grammatica, per così dire, la musica indie si ricollega a fattori più che altro logistici, quindi nessuna etichetta né niente, produci tutto da solo, sei un artista indipendente nel vero senso della parola. Effettivamente è così che ho iniziato anch’io, però ormai le cose sono cambiate. Tra l’altro purtroppo questa definizione, indie, si è poi trasferita più che altro su un genere musicale. Da noi questo passaggio è avvenuto un po’ più in ritardo rispetto che nel Regno Unito, ad esempio, dove è iniziato negli anni novanta. Ad ogni modo, dal punto di vista logistico no, non sono più indie e per quanto riguarda invece il genere, sto provando ad allontanarmene totalmente. Voglio piuttosto entrare a gamba tesa nel mondo cantautoriale, che mi interessa moltissimo. Quest’album avrebbe dovuto segnare questo passaggio definitivo.
Interessante. Ho notato tra l’altro che nel tuo primo album, Io e me x sempre, hai messo solo chitarra e voce. Poi invece con “Parka” sei passato ad arrangiamenti più elaborati.
Sì. Per il primo album è stato così per forza di cose, nel senso che io la musica a livello tecnico non la conosco più di tanto, so suonare la chitarra per modo di dire e poi sì, so cantare. Ho esaurito tutto ciò che ero in grado di fare fino a creare un album: ho preso voce, chitarra e kit di registrazione, mi sono chiuso in cantina e l’ho fatto. Dopodiché mi è venuta la fissa per gli Oasis, a ventitré anni piuttosto che a sedici o diciassette, quindi un po’ in ritardo per la mia età. Avevo un’estetica che non combaciava assolutamente con la mia musica, tutt’altro che arrogante, però mi sono detto sai che c’è? Ora che qualcuno che può finanziare il mio progetto provo a fare quello che voglio fare: una canzone sfrontata, con un po’ di elettrica. Risentendola ti dico che me ne vergogno, non la posso sentire, non mi piace. Però bisogna passare anche da queste fasi, la mia è stata di reminiscenza dei miei idoli e dei miei sogni, che poi è andata a scemare fino a C’eravamo quasi, un ridimensionamento di tutto, delle mie fisse. Sono tornato a provare a fare vero cantautorato italiano, sono tornato sui miei passi.
Guardando il tuo profilo Spotify ho notato che tutte le copertine sono in bianco e nero. C’è un motivo dietro a questa scelta estetica?
Guarda ti dico, io sono un grafico e un grafico direbbe: «Grazie al cazzo!». Perché con il bianco e nero è tutto molto più facile, ci sono molti meno problemi di coerenza cromatica. Io poi sono una persona molto semplice, tendo a vedere le cose o in un modo o nell’altro, è con fatica che provo a vedere le sfumature, quindi non sono riuscito ad andare oltre quest’estetica semplice. Allo stesso tempo mi piace così, mi piace questa pace dei sensi. Il passo verso il colorato sarà un grande passo, anche perché io ho i miei limiti. Mi serverebbe un aiuto dall’esterno, delle skill in più per imparare ad usare nuove tecniche, ad esempio il 3D. Dal momento in cui l’etichetta vorrà investire un po’ più di soldi sarà un bene per entrambi.
Hai fatto uscire anche un remix di “Al dente” con Giorginess. Come siete arrivati a questa collaborazione?
Con la mia abilità da filantropo. L’ho conosciuta a una serata e da non molto lucido l’ho approcciata in un modo un po’ particolare. Siamo stati coinvolti entrambi da questa verve folle e poi ci siamo cominciati a conoscere. Lei si è dimostrata disponibilissima, oltre che una persona d’oro e con dieci anni di esperienza, aperta a un po’ di tutto. È anche una persona che affronta di petto vari argomenti nel mondo della musica, che combatte, quindi per lei nutro tanta tanta stima. Arrivando al punto, abbiamo fatto questa collaborazione e tra l’altro da remoto, nel senso che io le ho dato la sua roba, le tracce e abbiamo fatto uscire questo remix che secondo entrambi è venuto bene, ci piace molto.
Molto bello. Parliamo invece della tua playlist per Collateral. Non so se per te è stata rilevante come esperienza ma io sono una loro grandissima fan.
Anche per me è stato rilevante. Mi sono cimentato in questo progetto anche se, sapendo delle altre playlist, mi sono chiesto come l’avrebbero presa… tu le hai presenti, no?
Certo, sì. Ci sono un sacco di artisti di rilievo.
Gente particolare, sì. Io invece ho fatto semplicemente la mia playlist da cantautorato italiano. Sì, ci ho messo anche le mie chicche, però l’ho incentrata soprattutto su ciò che veramente mi forma.
A me è piaciuta molto, per quello che vale. È sincera, diretta.
Guarda il punto è che in generale quando parli con i produttori ti rendi conto che hanno molte reference internazionali ed è a quelle che mi suggeriscono sempre di allenare l’orecchio. Se questi brani internazionali li ascolti però ti rendi conto che sono più articolati e che la voce sta sempre dietro, cosa che a me proprio non piace, io voglio che Giuditta la mia voce la senta qui, capisci? Io pur cercando di crescere musicalmente rimango ancorato all’Italia, ad artisti come De Gregori. Faccio riferimento non solo all’ultimo o al penultimo cantautorato ma anche a quello di cinquant’anni fa o più. È questo che davvero mi forma, anche per quanto riguarda la scrittura.
Ho letto che tu sei di Spinaceto, che ami dove vivi e che vuoi rimanerci. Perché? Cosa da questo posto a te come artista?
Se vai a Spinaceto ti dici è brutta, bruttissima. A me è proprio questo che affascina: l’uomo tende a fare le cose bene, farle brutte è difficile. Paradossalmente è per questo che la mia zona non è veramente brutta. Ci sono due vie, una che va e una che viene; in mezzo due palazzoni, quasi metafisici, ai lati altri palazzi. La cosa strana è che tutto si sviluppa proprio sotto ai due edifici principali, con delle gallerie, perché sono ex quartieri dormitorio quindi la gente andava lì a dormire e lavorava in centro. Spinaceto mi ricorda molto alcuni posti dell’est che mi affascinano da morire, infatti solo in Polonia ho ritrovato edifici così. E poi è un po’ come se fosse un paese a parte, in una città. È il compromesso perfetto per me, perché conosci tutti ma hai anche posti in cui andare. Perché, ad esempio, dovrei andare a Roma, a Trastevere? È un incubo per me, non ti muovi nel traffico, non riesci ad andare alle poste, è pericoloso… e non è neanche ben collegata con i mezzi come Milano. Vivere in un quartiere in una città secondo me è la serenità della vita, anche se fossi ricco sfondato io me ne starei a Spinaceto, nei miei 120 metri quadrati. Nulla di pretenzioso.
Mi parli dei tuoi progetti per il futuro? Anche quelli irrealizzabili, che determinerebbero la tua realizzazione, la tua forma finale.
Innanzitutto vorrei provare a partecipare a Sanremo Giovani. La produzione si sposterà su da voi a Milano, ad Asian Fake. Poi vorrei far uscire qualche singolo, compattandolo con l’album nuovo, senza crearne uno nuovo, voglio che questo continui a vivere. Per quanto riguarda invece i progetti irrealizzabili, la mia forma finale sarebbe quella da cui ho iniziato, tornare a voce e chitarra ma fare un album come l’ultimo di Johnny Cash, che ti fa commuovere alla prima canzone.
È stato tutto molto affascinante. Grazie e buona fortuna per tutto.
Grazie a te! Ciao, è stato un piacere.