– di Manuela Poidomani
e Giacomo Daneluzzo –
Arriviamo a Carosello Records, in zona Duomo a Milano, dove ci fanno aspettare il nostro turno in una bellissima sala d’attesa. A un certo punto arrivano Giuseppe e Claudio Caponetti, in arte Caponetti (che ha appena pubblicato il suo EP Maddai, che abbiamo recensito qui) ci salutiamo e andiamo in una stanza in cui, tra chitarre e appunti, ci sediamo a un tavolino a parlare. Claudio è un tipo socievole, iniziamo a chiacchierare del più e del meno, finché a un certo punto ci accorgiamo che, effettivamente, l’intervista è già iniziata senza che ce ne rendessimo conto, quindi iniziamo a registrare.
GD) Quindi, Claudio, tu hai un’esperienza da musicista?
Sì, ho iniziato a suonare la chitarra a dieci anni, a cui in seguito s’è aggiunto il pianoforte. Negli anni ho iniziato a scrivere testi e a metterli sopra la mia musica, per un discorso di esigenza – o urgenza – espressiva, con risultati inizialmente abominevoli. Mi sono trasferito a Milano dalle Marche alla fine del 2011. Nel 2012 è uscito il primo album di Mecna (Disco Inverno, ndr) e nel 2013 ho suonato al MI AMI Festival con lui. Poi, visto che il mio produttore era lo stesso di Tommaso Paradiso, ho fatto un paio di pezzi di chitarra anche per lui. Ho iniziato a scrivere principalmente per ricercare me stesso, che sembra un concetto trascendentale ma è verissimo: alla crescita umana corrisponde una crescita artistica. Pian piano sono arrivate le canzoni che mi piacciono e in cui mi sento integro.
GD) E in questo EP ti senti integro?
Sì, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo anno e mezzo di vita. Se una cosa ti piace devi avere l’integrità di dire: “Questa cosa mi rappresenta in quel momento lì”; allora sei a metà strada, anche più di metà. Si tratta di una fotografia di quello che ho vissuto: il mio EP è una parabola, una storia in cui all’interno c’è, tra l’altro, anche un’intera storia d’amore.
MP) Sappiamo che prima di fare il musicista hai lavorato per un periodo come commerciale per un’azienda informatica; la traccia d’apertura Google Maps, con i suoi toni malinconici, si riferisce a quel periodo in cui non potevi esprimere il tuo lato più artistico professionalmente?
Anche se è stato un momento per me buio, lavorare in azienda può essere un bel lavoro. Google Maps non si riferisce esattamente a quel momento, in cui soffrivo uscendo in giacca e cravatta, con la valigetta che mi aveva regalato mio padre, ma soprattutto a un periodo esattamente successivo, che è stato il momento critico. Quando lasci il lavoro per inseguire il sogno hai una botta di energia enorme, dici: “Che figata, adesso faccio il musicista, il mondo aspetta solo me!” e invefce al mondo non gliene frega proprio un cazzo, meno di niente. Il vicino mi dieva: “Va be’, ci provi sei mesi, poi smetti”; sicuramente gli rompevo il cazzo con gli strumenti. Il periodo iniziale è anche lieto, ma poi ti rendi conto che non hai un discografico, un produttore, non hai una lira e non hai più neanche le idee. Ed è lì che nasce il senso di malinconia di quella canzone: tutto è malinconico, sì, ma intuisco, in fondo, che c’è un lieto fine. C’è una prospettiva, una meta intuita; non sai ancora bene dove sia, ma senti che c’è.
GD) C’è una struttura ciclica nell’EP, che parte da Google Maps e si chiude con Solo, in cui vengono fuori sicuramente malessere e instabilità, ma come dicevi anche una sorta di prospettiva di miglioramento interna al malessere. Ritieni che questo senso di destabilizzazione che racconti nelle tue canzoni sia qualcosa a cui reagire con forza o da accettare?
Sono fatalista, determinista: “Go with the flow”. L’accettazione è la prima arma per reagire, uno strumento. Se le cose ti vanno male e le accetti ti rendi conto che una volta toccato il fondo o raschi o inizi a tornare su. Il disco si chiude con Solo, in cui c’è la stessa sensazione dell’inizio, ma con la consapevolezza che l’alleanza è qualcosa di buono. Accettare la solitudine ti rende una persona migliore. Per citare Klaus, di Universal (A&R Manager di Universal Music Italia, ndr): “Un romanzo felice non ha mai venduto una copia”. Per un artista la difficoltà più grande potrebbe essere proprio questa: riuscire a scrivere una canzone aperta, bella e pure felice.
MP) Partendo dalle Marche hai girato l’Europa e hai visto tante città e culture; qui a Milano ti senti a casa?
Quando sono partito le Marche mi stavano strette, avevo voglia di scoprire e sentivo di non aver visto abbastanza. Era una sorta di reazionismo nei confronti del posto in cui sono nato. Ho scoperto che di amare moltissimo le Marche e Milano. Proust diceva che il vero viaggio non è quando vedi posti nuovi ma quando inizi ad avere nuovi occhi; è molto importante, è lo stesso concetto che ti permette di fare dischi diversi e più belli dei precedenti, ma non perché prima eri una pippa, semplicemente il tuo modo di decodificare la realtà è diverso, più consapevole. Nei viaggi poi ci sono delle figate pazzesche, mi sono ritrovato a suonare con gente fuori di testa, gente che ti insegna qualcosa… È stato tutto un bagaglio che poi riutilizzi anche solo per i live, o nella scrittura. Se fossi rimasto nelle Marche non avrei tirato fuori tutto questo.
MP) In Ascoli FC c’è una visione della città molto personale, al punto che si capisce bene che si tratta di un tuo sguardo, un tuo modo molto personale di vivere e percepire questa città, più che di una descrizione.
Il videoclip di questo singolo spiega ancora meglio il brano: sono di Ascoli, ma mi sono trasferito ad Ancona con la mia famiglia. Nel videoclip c’è questa casa, che è la casa della mia famiglia da sempre, ad Ascoli, in cui sono andato a scrivere e a finire il disco. Quella è la mia Ascoli, quella provincia in cui c’è una fede particolare, quella calcistica, molto sentita. Il tema è la fede, non necessariamente religiosa, ma appunto calcistica, personale, illusoria. Non parla di Ascoli, ma della mia Ascoli, della serie B, del centro piccolo, della provincia. Si può estendere a Novara o a Foggia. La mia prima birra al bar me la sono fatta con il mio prete dell’Azione Cattolica. Nelle mie canzoni c’è tanto la religione, anche nelle prossime. Le Marche sono una regione fortemente legate al cattolicesimo, uno strascico dello Stato della Chiesa che si estendeva in quelle terre. Anche questo ha generato una reazione in me, perché io ho subito questo tipo di educazione e non la capivo: Babbo Natale, che si fa il culo in un solo giorno, era forse più credibile di questo Dio che è ovunque, in ogni momento, qualsiasi cosa tu stia facendo. Il credo stupido, come quello dei terrapiattisti o come la cultura del materialismo, è brutto, è superficiale, e caratterizza la nostra società; ma la fede non fa male: “You may say I’m a dreamer” non è male come forma-pensiero. Io credo nell’amore, un amore verso tutti, verso il mondo.
GD) Parlando della provincia, tu dalla provincia ti sei trasferito nella metropoli milanese; questo binomio provincia/metropoli secondo me si riflette su altre oscillazioni nel tuo modo di scrivere, tra basso e alto, tra popolare ed erudito. Ci sono immagini concrete e quotidiane alternate ad altre più astratte; è un contrasto che coesiste in modo pacifico?
È un equilibrio. Stare solo su registri alti è noioso, solo su registri bassi è superficiale. Essere depressi o essere sempre euforici mette le persone in una situazione di deficit nei confronti della realtà. Avere due registri è interessante: mi ammazzo di risate con i meme e con i video di gatti che si schiantano, poi leggo Proust. È un modo per mantenersi freschi. Il meme comunque è una forma di cultura, di comunicazione.
GD) Mi riallaccio al discorso che facevi con Manuela su Milano. Io sento molto Milano in questo EP: il senso di destabilizzazione, la frenesia, lo star sempre facendo qualcosa, andando da qualche parte, in qualche direzione… È tutto molto milanese, per quanto tu lo sia d’adozione. Come hai vissuto il passaggio a Milano e come ha influenzato il tuo sguardo sul mondo e sulle cose?
Ma che figata! Mi dici delle cose bellissime a cui non avevo neanche pensato. Però sì, c’è tanto Milano, c’è tanto spostamento, ricerca, movimento, hai ragione. Dopo nove anni Milano è proprio una casa. Inizialmente è stato difficile. Milano fa paura se vieni dalla provincia. Ero complessato, avevo l’accento delle Marche e molti giri non mi frequentavano, non riuscivo a legarmi con le persone. Inseguivo il sogno della musica, ho fatto la magistrale in economia ma era una scusa per continuare a suonare… Le persone che ho conosciuto all’università sono state amicizie superficiali, in seguito le ho perse. Ho fatto l’Erasmus in Portogallo, in città come Coimbra e Lisbona, posti bellissimi ma più vicini a Bologna che a Milano. Insomma, è stato difficile, ma lentamente mi sono sentito parte di Milano e ho iniziato a costruire amicizie. Sono una persona estremamente provinciale, nell’accezione più positiva del termine: mi piacciono il bar, il calzolaio, i negozietti… Il quartiere in cui sto, NoLo (quartiere nel nord-ovest di Milano, sta per Nord Loreto, ndr), mi piace molto: quando ci sono arrivato non costava niente, viale Padova sembrava che morissi. Ma a me piaceva un botto, costava tutto un po’ di meno, era tutto strano. Il mio ristorante di fiducia si chiama “Tre fratelli”, è un ristorante egiziano gestito da tre fratelli e sono molto amico di tutt’e tre. Sono riuscito a creare rapporti reali. Milano, per me, ha anche superato la provincia, nel tempo.
MP) Il titolo dell’EP, Maddai, in base all’intonazione può assumere molteplici accezioni. Qual è l’intonazione che vorresti dargli?
Mi piacerebbe che uno dicesse: “Maddai, Caponetti ha fatto ‘sta figata!”, questa sarebbe l’intenzione. Penso che l’intento sia quello di sorprendere in maniera positiva… Non del tipo che è arrivato Gesù Cristo, però vorrei che qualcuno percepisse che sto dicendo la mia in una maniera del tutto personale, il più possibile fuori dai canoni. Non perché li rifugga, i canoni, ma perché a me piace quella roba lì, io la faccio così. E magari che si ritrovi nel modo in cui io butto giù le cose. Se fai questo mestiere l’unico obiettivo, a parte tutto, i soldi, la fama, queste robe qui, è quello di emozionarti con le canzoni; se sei vero e ti emozioni davvero forse anche qualcun altro può entrare in questa tua sfera emotiva.
MP) In che modo ti ritrovi nella musica dell’EP? Che tipo di ricerca c’è stata?
Sono elementi presi dal mio bagaglio musicale. Sono momenti molto diversi tra loro: Google Maps ha dentro i Red Hot Chili Peppers e i Cigarettes After Sex, Ascoli FC è beatlesiana; non per emularli, ma perché sono i miei riferimenti. Sono pezzi eterogenei e chissà, magari ci sarà un’evoluzione. Vorrei avere la voce di Diodato, ma ognuno ha i propri strumenti e io ho fatto un disco con le risorse che ho, con la mia voce, che a me piace. Non ho studiato pianoforte o canto ma mi sento integro. Non c’è un sound che ti arriva così, diretto, ma volevo essere arlecchinesco, in questa fase. Sono cresciuto col rock degli anni Novanta e dei primi Duemila. Fino a un paio d’anni fa se mettevi le chitarre in un album ti menavano; oggi meno, dopo che sono uscite un po’ di cose, tra cui Post Malone. Cercare di non sembrare i vecchi Timoria riportando questo tipo di sonorità è complicato, è un gioco di equilibri.