Eponimo disco in uscita che si fa anticipare da questo primo singolo che vi presentiamo in anteprima. Si intitola “L’Eremita” la nuova fatica discografica di Cristina Nico che segna un nuovo passo e un nuovo passaggio dal quel Premio Bindi del 2014 da cui ne uscì vincitrice. Cerchiamo di rubare qualche indiscrezione per il futuro estetico e letterario di questo nuovo lavoro pubblicato dalla Orange Home Records. Ad ora ci godiamo il video di questo primo singolo estratto che lascia riflettere e non poco: inseguire e scappare lontano, esserci e nascondersi. L’eremita in fondo è il rovescio della medaglia spirituale di chi nella vita ha deciso di conoscersi piuttosto che di farsi attraversare semplicemente dal tempo. La solitudine creatrice e le maschere che indossiamo: ingredienti portanti in questa canzone mediterranea che vorrei definire “barocca” nel senso di queste organze compositive che dimostrano una cura pregiata per gli arrangiamenti. Uso la parola barocco pensando alle guglie delle cattedrali piuttosto che alle facciate assai lavorate. Come ci dirà la Nico stessa, barocco nel senso stilistico del termine. Che poi probabilmente su tutte, a ragion veduta, è musica del mondo e della tradizione.
Oggi lanciamo questo nuovo video che in qualche modo test bandiera di un disco eponimo. Quanto è influente la figura dell’Eremita nell’essere artista?
Lo è nella misura in cui rappresenta il desiderio di distaccarsi dai saperi facili, dai luoghi comuni, dalla ‘normalità’ per intraprendere un percorso di conoscenza. Ho scoperto da poco che questo è proprio ciò che rappresenta la figura dell’Eremita nei tarocchi, io non son affatto un’esperta in merito e mi ha colpito quanto corrispondesse al concept del disco.
E poi gli artisti sono spesso degli egocentrici che vogliono, cercano attenzione ma che devono anche fare i conti con la solitudine e addirittura con l’isolamento, cercato o temuto che sia.
È molto interessante questo misurarsi in pubblico e poi scappare. Più che Gaber, la radice filosofica è la vera protagonista. Che mi dici in merito? A chi ti sei ispirata per sviluppare questo concetto?
Quando ho scritto questo pezzo e ho elaborato il concept dell’intero disco, non avevo riferimenti chiari in merito, solo alcune reminiscenze scolastiche e suggestioni legate al mondo dell’arte (in particolare alcuni quadri di Bosch, come il “Trittico degli Eremiti”), anche se era già comparsa in alcuni miei vecchi disegni la figura un po’stilizzata e vignettistica degli stiliti, come erano chiamati gli asceti degli albori della cristianità che meditavano in cima a una colonna. Ma mi sono accorta che per me quella figura, così eccentrica nel suo essere solitaria, aveva in effetti molto a che fare con il cercare il proprio posto nel mondo, con il desiderio di esserci quanto con quello di distaccarsi da tutto. Più che filosofica, la matrice del mio ‘eremita’ è psicologica: mi affascinano gli archetipi, le figure che evocano anche il proprio opposto. L’eremita della mia canzone è qualcuno, anzi sono più individui, che le hanno provate un po’tutte, a modo loro, per trovare una comunione con gli altri ma non essendoci riusciti pensano che alla fine la salvezza stia nel distacco da tutto. Ma in realtà continuano ad aver bisogno di essere visti, ascoltati, compresi.
Nel video c’è un passaggio che mi ha colpito: tutti hanno delle maschere che però non coprono il volto ma qualcosa lasciano trasparire. Un vedo e non vedo. Che sia questo il vero nucleo della tua scrittura? Avresti potuto usare maschere integrali, e invece…
L’idea è stata di Ruben Esposito, il regista del videoclip, un amico artista che stimo molto. Gli ho fatto sentire il pezzo e gli ho detto: “Dimmi se hai delle visioni nell’ascoltarlo. Non voglio darti delle indicazioni, il video si fa se ti stimola, se ci vedi qualcosa che ha a che fare anche con il tuo linguaggio, con il tuo essere artista.” Così è stato. Ruben è prima di tutto uno scultore, abituato a lavorare con la materia e con lo spazio, con i pieni e i vuoti, con le luci e le ombre: chi meglio di uno scultore poteva rappresentare il nascondersi e lo svelarsi, in effetti? Le maschere trasparenti danno a intendere che non si può attuare una completa mistificazione di ciò che si è: magari aiutano a uniformarci e confonderci con gli altri ma lasciano comunque trasparire il nostro vero volto, le nostre unicità ed eccentricità che premono per uscire allo scoperto. In questo ha interpretato pienamente il mio stile di scrittura e il concetto della canzone, è vero. Ruben è stato bravo anche a rendere l’idea della coralità e quella della solitudine, a giocare sull’alternarsi di spazi chiusi e poco illuminati con le aperture di visioni di luoghi naturali dall’alto. Del resto ho capito da subito che aveva colto il concetto, quando dopo aver ascoltato il pezzo ha detto: “Chi c’è di più eccentrico di uno che per meditare e distaccarsi dal mondo sale su una colonna dove è visibile a tutti?”
Parliamo di questo nuovo disco? Sarà barocco e mediterraneo come questa canzone?
Barocco, dici? Se per barocco intendi che all’interno di un pezzo possono esserci diverse virate di ritmo, atmosfera e persino di stile, beh, sì, allora il disco potrebbe suonare a tratti – ma solo a tratti- barocco. Quanto ai suoni e agli arrangiamenti, in realtà con Raffaele Abbate, il produttore artistico, abbiamo lavorato proprio per limitare il più possibile il surplus di tracce e arrangiamenti che spesso si finisce per attuare in sala di registrazione. Certo, ci sono altri pezzi che come “L’eremita” suonano più stratificati, ma altri sono decisamente più minimal, essenziali. Il disco vive di momenti di grande impatto ritmico, in cui i tamburi di Federico ‘Bandiani’ Lagomarsino insieme alle mie chitarre danno tiro al tutto, e altri più raccolti, d’atmosfera.
Quanto al ‘mediterraneo’, invece sì, il disco è costellato di suggestioni che guardano alle culture musicali del Mediterraneo, senza rinnegare un’insopprimibile matrice rock. Anzi, in alcune canzoni questo gusto che per semplicità possiamo chiamare ‘popular’ o ‘world music’ è ancora più presente, grazie agli apporti di Roberto Zanisi, un polistrumentista meravigliosamente eclettico che suona strumenti a corda e percussioni di tutto il mondo e che in questo disco ha suonato il çumbus (una specie di banjo turco), il bouzouki, la lap steel e la chitarra dodici corde. Aggiungici la viola di Osvaldo Loi, un altro musicista davvero eclettico che pur partendo da una formazione classica spazia dal folk all’elettronica all’avanguardia, e il mix è fatto. Dal vivo suona ancora più potente questa miscela…
Dal Bindi del 2014 ad oggi. Ma quanto è cambiato il mondo dei cantautori? Cristina Nico poi risponde a questo mare di elettronica con della tradizione…
È cambiato, davvero? Scherzo, sì, è ovvio che dei cambiamenti ci sono, anche se è un arco di tempo tutto sommato troppo breve per dare dei giudizi pienamente consapevoli. In realtà il mondo dei cantautori è da diversi anni sempre più eterogeneo e variegato, nelle scelte di sonorità, tematiche, stili. Ce n’è per tutti i gusti, e ci sono molte cose interessanti. Certo, si direbbe che chi finisce per avere maggiore visibilità sono spesso produzioni che suonano alle mie orecchie un poco omologate, che ricalcano magari una scrittura abbastanza classica senza avere la profondità lirica dei grandi cantautori, ma con un gusto sonoro rispondente ai canoni radiofonici attuali, suoni compressi, uso di un’elettronica un po’ a buon mercato che sembra messa lì a svecchiare il tutto e quasi sempre a dare il tocco scanzonato. Il mio gusto mi porta ad apprezzare maggiormente cose estreme, magari anche distanti da me, o comunque cose che trovo almeno in qualche aspetto coraggiose, stimolanti. E a progetti che guardano alle radici vivificandole, è vero. Ma il mio ‘ritorno alle radici’ è stato un bisogno prima di tutto emotivo, assecondato consapevolmente, certo, ma senza preclusioni a priori. Non ho assolutamente nulla contro l’elettronica, anzi ho convinto Raffaele a rispolverare il suo passato di appassionato di elettronica e nel disco ne abbiamo fatto un uso morigerato ma comunque importante, che ci è servito a sottolineare in alcuni punti il tocco di colore più oscuro, più dark. Di sicuro non le abbiamo dato un compito rassicurante. Anche il contributo che ha dato con i suoi campionamenti Sabrina Napoleone, cantautrice che ha molta più dimestichezza di me coi synth, nel pezzo che si chiama ‘La donna di Fuoco’, va in quella direzione.