Siamo in gabbia ma si può evadere. A tre anni da Museica, Michele Salvemini torna con Prisoner 709: l’album più audace della sua produzione. La provocazione stavolta abbandona lo sberleffo per arricchirsi di una sfumatura più severa. L’ottima scrittura, sempre ricca di riferimenti sottili quanto geniali, è al servizio di un viaggio di sedici tracce corrispondenti alle tappe che vanno dalla cella del “Prisoner 709” all’evasione sull’ “Autoipnotica”. Si procede per opposizioni fra libertà e prigionia, ragione e religione, malessere e guarigione, uomo e artista perché senza dubbio quest’album è figlio di un conflitto. Sfoggiando un alternative rap in gran forma che va dall’hip hop duro e puro, al disco-funk, all’electro, Caparezza compie la vera rivoluzione della sua carriera spostando il consueto sguardo critico rivolto all’esterno, contraddistinto dal suo timbro acidulo, verso una dimensione introspettiva mai sondata prima in cui adopera la sua voce più intima. Per farlo adotta una forma vicina al concept che, in tempi in cui si predilige l’ascolto del singolo a quello dell’album, è rischiosa, quindi coraggiosa, nella struttura e nella durata. In oltre 60 minuti, brani come “Prosopagnosia” gioiello dell’album, “La Chiave”, “Larsen” e “Il testo che avrei voluto scrivere” prendono di petto i demoni che hanno ingabbiato Capa negli ultimi difficili anni trascorsi tra impossibilità di riconoscersi (“If you call my name, I don’t recognize it” è il leit motiv, intonato da John De Leo, che apre e chiude l’album) e l’acufene, tormento fisico causato dalla sua stessa passione per la musica. Un album importante. Così bello da mettere in discussione il senso di doverne scrivere. Un quesito cruciale per chi fa della critica musicale la propria passione, ma in fondo è in casi come questi che la nostra professione raggiunge il suo scopo più alto: la musica ti fa deporre la penna, prende la parola e “Ti fa stare bene”.
Alessandra Virginia Rossi
Era il primo marzo 2011 quando Caparezza diede alla luce un album intitolato Il Sogno Eretico, e mi ricordo benissimo cosa ne pensai: geniale, ironico, leggero ma allo stesso tempo molto impegnativo. Il sound? Vario. Voglio iniziare in modo liberatorio. Prisoner 709 è un disco noioso. Vi prego, continuate a leggere, vi spiego perché. Ci sono 10 pezzi in questo album, tutti arrangiati praticamente nello stesso modo, animati da un’elettronica “vecchia maniera”, stracolmi di drum machines e sintetizzatori analogici (e il che sarebbe nient’altro che un bene) che producono suoni già sentiti, vecchi caroselli e arpeggi Moog stile anni ’70. C’è poca dinamica, e i pezzi sembrano incastrati in una produzione piatta e bidimensionale, monotona e rassegnata. Il resto è una valanga di parole, tantissime, il più delle volte perfette, come è giusto aspettarsi da Caparezza, modellate con maestria ed esperienza, ma la sensazione che cresceva prepotente alla fine di ogni brano era sempre la stessa: “Si, ma tutto qui?”. I temi trattati sono più o meno tutti relativi alla crescente consapevolezza del non essere più ragazzini: sono riflessioni profonde di un uomo che osserva il mondo che ha intorno cercando di rifiutare a tutto campo il populismo e la massificazione. Belli. Ma in un album non bastano i testi, e questo disco non ha altro: niente ritornelli memorabili, poca, pochissima melodia, poca sperimentazione, e, come nel più assurdo ossimoro, pochissima banalità. Fin dall’uscita di questo Prisoner 709 non mi ricordo ancora di averne letto pareri negativi: sarà che quando un’artista è grande, qualsiasi cosa butti nella pentola, per i commensali risulterà sempre irresistibilmente goloso, ma credo ci sia stato una sorta di pregiudizio in positivo che ha animato le tante righe scritte al riguardo. Caparezza non si discute, è un artista brillante, ma questa volta ha fatto un flop.
Francesco Pepe